L’Italia attraversa una delle crisi economiche più difficili (secondo molti, la più difficile) dell’era moderna. Per la prima volta in sessant’anni, se le misure rese necessarie dal contesto internazionale non saranno attuate con coerenza, esiste la possibilità che vada perduta una parte non inconsistente del benessere creato dalle due generazioni che ci hanno preceduto, dopo la seconda Guerra mondiale. Nella Penisola, questa grave situazione è trattata con superficialità da un buon numero di media e bistrattata dai politici, i quali non riescono a far altro che coglierla come spunto per intollerabili zuffe da pollaio.
L’Italia non perde occasione per dirsi orgogliosa di essere riuscita a sconfiggere il terrorismo, negli anni Settanta, senza rinunciare alle garanzie dello Stato di diritto e senza ricorrere a leggi speciali. Allora, tutti i partiti politici e i soggetti sociali serrarono le fila contro un fenomeno violento che stava minando con sciagurato successo le radici della libera convivenza.
Di fronte a una nuova e grave sfida, questa volta di ordine economico, non si registra la stessa capacità di coesione. Il capo del Governo in carica ha annunciato le proprie dimissioni, ma non è chiaro chi e con quali idee garantirà la sua successione in quali tempi. Mai come in queste circostanze, gli altri Paesi, in un mondo che si regge su legami economici sempre più stretti, attendono mosse chiare e prevedibili.
Si è dibattuto a lungo se il controllo del Fondo monetario internazionale sull’attuazione delle riforme promesse dall’Italia sia stato richiesto dall’Italia stessa o imposto da altri. A questo monitoraggio si aggiunge quello dell’Unione europea, in verità piuttosto stringente. Il Commissario europeo agli affari economici Olli Rehn ha inviato alle autorità italiane un questionario di 40 domande, da restituire compilato entro il termine perentorio di una settimana. Ha apertamente contestato la realizzabilità del pareggio di bilancio nel 2013. Sin da domani, un gruppo di esperti europei sarà in Italia per verificare sul campo le mosse compiute dalla Penisola, in particolare su elementi strutturali (la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro) da decenni sotto gli occhi degli osservatori per le loro anomalie, che sono in gran parte alle origini dell’attuale, insostenibile debito dello Stato.
Si può discutere se la sorveglianza internazionale sia stata chiesta o accettata obbligatoriamente dall’Italia. Non è questo il punto. Forse, se l’avesse davvero chiesta di propria iniziativa, sarebbe ancora peggio, poiché significherebbe che la Repubblica ha riconosciuto la propria incapacità di essere credibile da sola di fronte al mondo su una materia essenziale come l’economia. I paragoni con le certificazioni di qualità e gli audit aziendali non confortano.
La causa principale della sfiducia internazionale è che non è avvenuto ciò che avvenne di fronte alla minaccia terroristica: una presa di coscienza da parte di tutti su alcuni principi irrinunciabili di coesione di fronte a un pericolo che tocca le basi stesse dello Stato, oggi sotto forma di grave regresso economico. Una coesione che allora fece arretrare i terroristi e della quale oggi vi sarebbe bisogno per convincere il mondo della volontà del Paese di risolvere i propri problemi, ma purtroppo non se ne vede traccia. Le annunciate dimissioni del capo del Governo sembrano sempre più una prova del fuoco. Tutto dipenderà dagli scenari che si apriranno a breve e da come saranno letti dagli organismi internazionali, che suppliscono in questo momento all’incapacità di fatto dell’Italia di autogovernarsi. | ©2011 Luca Lovisolo