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ORFANI DI REALTA' #12 "Hugo Cabret" e il cinema-locomozione

Creato il 16 febbraio 2013 da Samuelesestieri


"L'opera d'arte non è uno strumento di comunicazione. L'opera d'arte non ha niente a che fare con la comunicazione. L'opera d'arte non contiene letteralmente la minima informazione".
(Gilles Deleuze, "Che cos'è l'atto di creazione?")
Già diverso tempo fa mi sono confrontato con l’ultimo lavoro di Martin Scorsese, quel film-saggio-omaggio che riflette sui cambiamenti del mezzo e sulle chiavi di volta che rendono accessibile il mondo dei sogni. Quello che ne uscì fu quest’articolo: http://www.whatyoulove.it/2012/07/13/viaggio-alla-fine-del-cinema-da-hugo-cabret-ai-fratelli-lumiere/.
Su "Schermo bianco", però, mi interessa continuare a riflettere, in coerenza con gli “Orfani di realtà” di questo 2012 cinematografico, su un determinato aspetto di “Hugo Cabret” che va oltre l’omaggio, oltre il treno che si scaglia contro gli spettatori e il razzo che si conficca nell’occhio destro della luna. E’ vero, Scorsese omaggia e sorprende, espande e reinventa, usando il cinema per attuare un riscatto impossibile di luce e movimento. Ma se “Hugo Cabret” fosse solo il viaggio di un cinefilo nella storia del cinema, la lezione accademica di un professore come Martin Scorsese, non si troverebbe in questo servizio.
La suggestione che è alla base di questa riflessione è invece tipicamente Wendersiana: la scelta di ambientare la storia in una stazione ferroviaria, ricordando ancora una volta che il cinema è più che un mezzo di comunicazione un mezzo di locomozione. E’ qui che si apre un varco gigantesco e rizomatico, come un rebus di corto-circuiti secolari destinati a interrogativi baziniani su un’ontologia del cinema. Che cos’è il cinema?, per l’appunto. Non è certamente un caso che la sua nascita e il suo simbolo rimangono un treno, in un contesto in cui il mito positivista del progresso prende il sopravvento, insieme a quello della velocità e del motore.


Nel fuori-campo dell'immagine, oltre agli ammiccamenti francesi, agli inseguimenti in stazione, ai piccoli siparetti secondari che circondano la storia principale, mi è parso di scorgere il cinematografo come uno strumento che ha sempre più problemi a identificarsi come mezzo di comunicazione – e che, forse, per sua stessa identità non si potrebbe mai definire tale. Pensare a un mittente, a un messaggio e a un destinatario vuol dire rinchiudere il cinema in prigioni industriali e/o (peggio) ideologiche. Da questo punto di vista il cinema non comunica, il cinema trasporta. Lo spettatore non è poi distante dal viaggiatore e chiede alla sala cinematografica quello che chiederebbe a un viaggio: l’ipotesi di una nuova vita, di nuovi occhi, di una nuova personalità tutta da costruire, di nuove storie ed emozioni. Più semplicemente chiede un'autentica, vitale rinascita (degli occhi, dell'anima, del mondo: cinema come palingenesi dello sguardo).
D’altronde i panorami rettangolari che si spiano dal finestrino di un treno non sono poi così dissimili da un cinemascope ridotto. Vedere oltre il finestrino equivale poi a guardare (oltre) lo schermo.
Chiediamo al cinema di spostarci, non di insegnarci, viaggiando nel futuro, nel passato e in infiniti, ucronici presenti. Come una guida nel mondo dei sogni Martin Scorsese rivendica lo statuto di meraviglia, magia e sorpresa che sono alla base di ogni nuova visione.
Il cinema è quindi, prima di tutto, una macchina che ci permette di percorrere sentieri inaspettati, e non per niente in "Hugo Cabret" assistiamo al doppio speculare del cinematografo: l’automa. Ma quest’automa può funzionare e realizzarsi solamente con l’intervento umano.

(appunti per una riflessione futura: torna alla mente un altro automa che tanto assomiglia a quello di Scorsese, ovvero quello de “La migliore offerta” di Tornatore che, guarda caso, è un film sulla simulazione. Per ora sono due immagini a confronto, lasciamole vivere e scontrarsi un po’ prima di catturarle e scriverci su).


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