Avendo dovuto abbandonarla per cercare lavoro, la distanza ha accresciuto l'affetto, come sovente accade, ma mi ha anche dato la possibilità di vedere questa città con occhi nuovi e diversi.
Che cosa ho visto? Che Napoli ha delle potenzialità mostruose, deve solo imparare a sfruttarle. Non è una cosa che deve scendere dall'alto, perché quando si accetta che qualcuno ci dia una mano, siamo automaticamente costretti a fare quella determinata cosa secondo il modo di vedere di chi ci ha aiutato.
Napoli può fare a meno di ciò, anzi deve trovare dentro di sé il modo di imporre al mondo la propria presenza, il proprio modo di essere, non come un modello antagonista rispetto al comune modo di intendere una città, ma come un modello alternativo e con la stessa dignità di ogni altra città.
Che significa? Che se Napoli si sente diversa dal resto del mondo, questo non è né un bene né un male, è semplicemente il suo modo di essere. Non è un bene nel senso che non c'è in ciò niente di eclatante, niente per cui doversi credere “migliori di”, ma non è neanche un male, quindi non c'è alcun bisogno di sentirsi vilipesi, derisi, maltrattati, inferiori: Napoli è Napoli, e tanto basta!
Ma significa anche che esistono particolarità della città che vanno salvate prima che l'attuale cultura omogeneizzante renda anche Napoli niente più che un agglomerato urbano. Non so per quale capriccio del destino non lo sia diventata in 2700 anni (o meglio, nel mio romanzo lo dico come mai), ma è importante che ora non si perda più nulla dell'anima di questo luogo che ha fatto cantare, innamorare, poetare generazioni dei più grandi artisti di tutti i tempi e di tutto il mondo.
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