Origo. Una striscia di vita sperduta nel mare, ove nulla accade e dove la solitudine si fa concreta, e non è un’astrazione dello spirito, e diventa una spirale. Penetrante. Una lingua di terra senza confini dove la sabbia si mescola alla noia. E la noia alla sabbia. Poche parole, tanti gesti. Soprattutto, tanti gesti muti. E sguardi furtivi. Colpevoli e timorosi. Ancestrali che fluttuano nelle onde delle pupille. Cupide che assorbano luce morbosa delle case. Nell’intimo delle stanze disadorne, nella calda penombra pomeridiana, in mezzo a una brezza che spira da occidente e apre i cuori ai desideri repressi dentro un paio di pantaloni o in mezzo a un vestito a fiori. O tra il petto ingrossato di Penelope, prorompenti dune che si slacciano in un impeto materno al pensiero di un altro giro di sole all’orizzonte senza meta e sempre uguale, lento nel suo passaggio, e la vita che si consuma e sbiadisce nei panni appesi a un filo, sottile e allacciato ai fianchi floridi di Irene, giovane ragazza ancora piena di speranze. Vitale. E sente scuotere nel cuore una voglia di tentare, di tendere ancora la sua rete di marinaio, catturare il grosso squalo che ossessiona le sue notti insonni, nella sua segreta solitudine, mentre tenta di placare con una carezza la sete d’amore. Ed Ettore che combatte nelle sue fantasie la sua guerra contro la sua achilleide epidermide che si accartoccia ai brividi di quella brezza estiva. E invano aspetta che Ulisse torni dal suo periplo a soddisfare le sue voglia. Meglio fantasticare su quel ragazzo impacciato, ma dotato di virtù rare e ricercate. E i vapori della terra si sollevano in un tumulto danzante, quasi ad inscenare una danza antica, mitica, un’esperienza che si apprende e si ripete nel suo ciclo diafano, soffocando un corpo nelle sue lancinanti atmosfere mistiche, in cui la carne s’unisce allo spirito, e diventa tutt’uno, anfora che raccoglie un liquido mucoso, nutrimento che fuoriesce da un tronco sapiente sotto i tocchi leggeri della mano. E gli effluvi che s’intensificano nel rifiorire della primavera, e che danno una sensazione tutta botticelliana, dove l’ambrosia si unisce al labbro mordente. Così accade ogni volta che la fantasia di Penelope naviga tra i flutti di un desiderio burrascoso. E invano aspetta Patroclo sulla riva del mare. Attesa vana. Nulla sfugge agli occhi di chi ama le pene di un amore non ricambiato. E allora non rimane che stare a guardare quelle vecchie carcasse che dondolano nel nulla, in un moto perpetuo, fumare un’altra cicca e lasciare che il mare tutto inghiotta nel suo inarrestabile avanzare. Patroclo che cammina lunga una striscia di terra, che non ha guerre da combattere, ma pensieri da cancellare, ombre da dimenticare nelle sue tracce fragili e leggere. Patroclo che è stanco d’ascoltare il rumore del mare e aspetta che qualcosa accada.