Com’è bianca questa pagina.
Vorrei potermi avvicinare e vedere il mio riflesso, riconoscermi. Questo è per me scrivere, è trovarmi o ritrovarmi. Per questo non lo faccio da un po’. Ho lasciato V. a seguire una vita senza portarsi dietro se stessa. Ho lasciato a casa me. Sono stata bene: ero vestita di una parvenza di normalità che penso di non aver mai indossato prima. In problema è che i vestiti si tolgono e la pelle che c’è sotto è sempre la tua, con tutta la tua storia. Sei sempre tu, ovunque tu vada.
Tra gli undici tentativi di iniziare questo post c’era anche l’idea di creare un parallelismo tra vita e scrittura. Peccato che vita e scrittura non c’entrino proprio un cazzo. Basta pensare a quanto sia difficile l’ incipit di qualcosa, un post, un libro, una poesia. Deve essere accattivante, richiamare l’attenzione. Quando nasci arrivi coperto di sangue e placenta, con una corda attaccata all’ombelico e urli. Urli. Credo che vi sia nel pensare comune un’idea romantica dei primi vagiti: il bambino piange per aver lasciato la sicurezza del ventre materno ed essere stato gettato, senza il suo permesso, nel brutto mondo cattivo.
No.
Se non urli appena uscito dal grembo di tua madre, muori. E credo che da lì non si smetta mai veramente di urlare per sopravvivere, per affermare la propria identità, la propria importanza. Sono state proprio delle grida – uscite dalla mia bocca – che hanno rotto, spezzato qualcosa dentro di me. Forse quelle barriere, quelle compartimentalizzazioni dell’anima che ho eretto per evitare che, se una parte era infettata dal dolore, contagiasse tutte le altre. Limitavo i crolli e quindi i danni. Così facendo finisce per mancarti una totalità, un’unicità da mostrare: scegli all’occorrenza un tuo aspetto da mostrare all’interlocutore secondo i suoi gusti. Dimentichi chi sei e ci sarà chi vorrà prendere possesso della tua vita, perché tu gliel’hai concesso.
Emergono istinti di sopravvivenza che non sapevi di avere. Un amor proprio che credevi di non aver sviluppato.
Questa volta non ho lasciato a casa nessuna parte di me, anzi ho ripiegato con cura i miei peggior difetti, le mie mancanze, il mio carattere di merda, le mie insicurezze, le mie paure e le ho portate con me come se fossero un tesoro prezioso. Ho portato tutto, ma proprio tutto. Rimiro le parti peggiori di me, quelle che ho disdegnato, ripudiato, per cui mi sono colpevolizzata. E non vedo l’ora di mostrarle, con orgoglio, a tutti quelli che non giudicheranno.
V.