Una mia amica sostiene che Virginia Woolf è di carta. Qualsiasi riduzione in altra forma artistica, in particolare cinematografica, perde l'essenza della sua stessa arte. E l'essenza di un romanzo per me è una sinestesia, quel ricordo che è insieme profumo, suono, gusto di un mondo che fugge, appena può, dallo sguardo sagace e lungimirante che guarda il mondo. Orlando non è solo le peripezie di un uomo che a un certo punto, per una qualche forma di grottesca maledizione, diventa donna; né quella di una creatura della fantasia che attraversa i secoli a dispetto delle volontà e dell'intelligenza umana. Questa è la storia di una lettura dell'intera tradizione culturale inglese, della persistenza di un'idea, di un personaggio che s'avvede della storia, ma non dell'età.
Il mestiere di storico che si attribuisce Virginia Woolf sfocia nel suo personaggio, che lega tutto al filo della memoria: Orlando conosce il prima e conosce - con stupefacente indifferenza - anche il dopo. È lei che fa la storia, perché non c'è storia che non si faccia attorno a un uomo o a una donna e non c'è eternità che non sia eternarsi del presente. Le pagine dedicate alla trasformazione di Londra sono suggestive e più che mai commoventi, perché sono le vicende di una vita che pervade nonostante tutto una metropoli, l'esistenza di un intero mondo, che trasformano la vita stessa. Il sottotiolo del romanzo ha un bell'essere A Biography: è Orlando il vero biografo del mondo, perché tutto intorno cambia mentre lui - poi lei - rimane sempre Orlando, traboccante di poesia, alla ricerca di un segno che faccia di una quercia una poesia eterna, a dispetto delle mode.
Il suo è un poema di continue correzioni e sarà solo per un equivoco, per uno straripare subitaneo delle sue idiosincrasie, che la donna potrà vedere insieme il suo albero, simbolo immoto di un tempo di sempre, e La quercia, effimera testimonianza dell'inconciliabilità definitiva tra arte e vita. Orlando non è un resoconto sulle vicende del protagonista eponimo, Virginia Woolf ironizza, mette in campo correttivi e distanze tra sé, in quanto storico, e la possibilità che una simile opera si possa davvero scrivere: il suo romanzo è una storia della vita attraverso Orlando.
Orlando non fa che riinventare il mondo vissuto da chi l'ha donata al mondo. Una solitudine immensa fatta di autori e di opere, un'interconnessione elettrica di volti che si immaginano, di dialoghi mai avvenuti, di richiami, di proteste per il proprio ruolo nella memoria dei discendenti. Orlando si emancipa dal destino del personaggio sulla base del genere, relegando gli accidenti della narrazione al sesso di chi lo racconta. Il mondo di Orlando è vincolato ai capricci del destino terreno e alle attitudini personali di chi si incarica di parlarne. E non degli altri.
Il romanzo di Virginia Woolf si sviluppa davvero ovattato in un mondo di lettere, o se vogliamo: di carta. Qualsiasi interferenza, qualsiasi congettura non fa che rimbalzare sul lettore, scagliato dalla feroce ironia dell'autrice. Mai ho letto storia più blindata in una letterarietà assoluta, dove il prima e il dopo di un personaggio sono tutte voci in costante dialogo, magari polemico, ma fitto e vivo tra epifanie dell'impossibile. Anche le vendette che Virginia Woolf sembra prendersi col panorama culturale coevo sono molto più del doppio della fittissima attività critica dell'autrice: sono la messinscena di una vita che squarcia la solitudine in una favola a tratti divertentissima, commovente, il decantare di una segreta parodia.