Son of Saul (Saul Fia) di László Nemes. Con Geza Röhrig, Levente Molnár, Todd Charmont. Voto 7 e mezzo
il regista Laszlo Nemes
Forse il film di questo Cannes. Tutti, prima della proiezione, in fremente attesa del capolavoro annunciato. Perché per Saul Fia lo stesso delegato generale Thierry Frémaux aveva speso parole inusuali di elogio nella conf. stampa di presentazione del programma. Opera prima – l’unica del concorso – di un cineasta ungherese allievo di Bela Tarr, che è una credenziale di peso, altroché. Un film sulla Shoah, una storia insostenibile. Che non può non porci di fronte all’eterna questione: ma è possibile rappresentare quell’orrore? non è che ogni rappresentazione è in una qualche misura un tradimento? ed è possibile mantenere per lo spettatore di fronte a un film sulla Shoah un distacco critico? Bisognerà riparlare, di Il figlio di Saul, che sicuramente si prenderà più di un premio, e magari anche la Palma. Da dove partire per darne un’idea? Ecco, siamo in un campo di sterminio. L’ebreo ungherese Saul è un Sonderkommando, uno di quegli internati scelti per spogliare coloro che vengono condotti alla camera a gas, per ripulire le camere dopo ogni ‘operazione’, per bruciare i cadaveri nei forni, per spargere le ceneri nel fiume. Gente che dopo pochi mesi viene a sua volta uccisa perché non possa raccontare quel che ha visto e ha fatto. (Attenzione: esiste anche un libro dal titolo Sonderkommando Auschwitz scritto da Shlomo Venezia, un ebreo romano che ad Auschwitz è sopravvissuto). Un giorno tra i corpi tirati fuori dalla camera a gas c’è anche quello di un ragazzo, è il figlio di Saul. Che da quel momento ha solo un obiettivo in testa: dargli sepoltura degna, trovare un rabbino che reciti per lui il Kaddish. Antigone nei lager. Intanto nel campo è, letteralmente, l’inferno. Nemes ha un’idea forte e precisa di cinema, e la applica al suo racconto con coerenza assoluta. Macchina da presa sul volto del suo protagonista, e pronta a seguirlo nel suo affannarsi in quella bolgia demoniaca in lunghi piani-sequenza, a simulare il tempo reale. Intorno a Saul tutto, uomini e cose, è sfuocato, indistinto, e questo consente a Nemes di sfuggire almeno in parte al dilemma della rappresentabilità o non-rappresentabilità dell’orrore. Capolavoro? Non saprei. Certo, la scelta stilistica forte di seguire con la macchina da presa la faccia e il corpo di Saul nella bolgia ci fa precipitare noi stessi nell’orrore, ce ne rende partecipi, come mai prima in un film sulla Shoah. Straordinariamente girato e di inaudita potenza, soffre di qualche inverosimiglianza. Com’è possibile nascondere abbastanza a lungo un cadavere in un luogo ossessivamente controllato come un campo di sterminio? Ma bisognerà pensarci ancora su, a Il figlio di Saul.