Giustamente scelto dal Cile come candidato nazionale nella (lunga) corsa all’Oscar per il migliore film in lingua straniera, la categoria per cui noi abbiamo nominato Non essere cattivo di Claudio Caligari (qui la lista completa dei candidati). El Club potrebbe fare molta strada, teniamolo d’occhio. Alla Berlinale dello scorso febbraio ha sfiorato l’Orso d’oro, poi andato a Taxi Teheran di Panahi, incassando comunque l’Orso d’argento – premio speciale della giuria ed è l’ennesimo gran film firmato dal cileno Pablo Larrain, ormai uno dei meglio della sua generazione. Ripubblico la recensione che ho scritto subito dopo averlo visto a Berlino.
In una città sulla costa cilena c’è una piccola comunità di preti che non esercitano più il loro ministero da tempo, non sappiamo perché, e all’inizio non sappiamo nemmeno per quali motivi siano lì. Ad assisterli c’è una suora-perpetua, passano il tempo partecipando alle corse di cani con il loro levriero. Poi la nebbia si dirada, capiamo che sono tutti finiti in quel purgatorio per punizione, perché colpevoli in vario modo. Chi di pedofilia. Chi di omosessualità (prego, non confondere le due cose). Chi di collusione con i passati regimi. Un giorno un uomo, un senzacasa abbrutito dalla povertà e dall’esclusione sociale, si mette sotto le loro finestre a urlare di essere stato violentato da bambino da uno dei preti ospiti, descrivendo in ogni dettaglio pratiche e contropratiche sessuali. Ci sarà uno sparo. Il prete accusato da quell’uomo venuto dal nulla si è ucciso. La comunità si compatta, si decide di fare passare l’accaduto per un incidente. Ma da Santiago verrà mandato un ispettore, un giovane prete, un gesuita aspro, disincantato, affilato, e bello, con l’incarico di indagare sul quel covo di serpi e, se necessario, di bonificarlo e chiuderlo. Di eliminare quella cellula impazzita dal corpo della Chiesa. Sottoponendo tutti a un interrogatorio, molto apprenderà, ma molto gli resterà oscuro. Il gruppo cercherà di difendersi, di depistare. Ci saranno sviluppi da vero noir, in un crescendo che sfocerà in un finale spiazzante. Tutto nel clima livido e malato cui Larrain ci ha abituato con Tony Manero e Post Mortem (No è un’altra cosa). Confermando di essere un autore unico, assai personale, capace di prendere i materiali bruti dalla cronaca e dalla storia per trasformarli – ed è soprattutto il caso di El Club – in storie infernali e claustrofobiche, in cupi rituali controriformistici. Ballate barocche e insieme glaciali di morte. Danze di spettri. Con in El Club (almeno) una sequenza che ci lascia tramortiti, la confessione dell’uomo violentato da bambino dai preti il quale descrive quello che la sua mente infantile aveva elaborato. Un delirio in cui sesso e sacro, violenza e estasi si mescolano in un groviglio inestricabile. Ecco, son cose come queste a farci capire di che statura sia Larrain. Basti paragonare El Club a un film sullo stesso tema di qualche anno fa come Il dubbio per capire la distanza siderale. E please, diamoglielo un premio. Si rivedono gli attori feticcio del regista cileno, Alfredo Castro e Antonia Zegers.