Oggi un Presidente di colore si avvia alla chiusura del secondo mandato alla Casa Bianca e, dopo la bufera sulla candidatura agli Oscar, l’Academy viene accusata di razzismo.
Per dovere di cronaca, è superfluo citare attori e registi di colore finiti nel firmamento hollywoodiano, consegnando al nostro immaginario collettivo pellicole memorabili. Lo hanno fatto anche registi alla Spike Lee. Anzi se proprio devo dirla tutta, senza film come Mo’ Better Blues, nel 1992 non mi sarei intestardito per recarmi ad Harlem a tutti i costi.
Allora ero uno studente, me lo proibirono, dicevano che era pericoloso. Durante le tre settimane di studi in quell’estate newyorchese, mi rifiutai di scegliere la formula del mini tour organizzato, lo additai come gesto razzista e sbraitai: “Non sono animali da circo?”.
L’accusa di razzismo, sbandierata oggi da Spike Lee nei confronti dell’Academy, gli si ritorce contro. Non fu proprio lui ad attaccare ferocemente Clint Eastwood nel 1988, in occasione dell’uscita di Bird? Secondo il regista di Malcom X un bianco non poteva raccontare la vita di un musicista di colore come Charlie Parker. Eastwood lo fece magnificamente.
Qui non si tratta del colore della pelle, ma di quella infame “subcultura dello scarto”, che ci rende tutti maledettamente sessisti, maschilisti, omofobi, fanatici religiosi e politici. Una regressione culturale, fatta di gabbie sotto cui siamo finiti tutti, Hollywood e Academy comprese.
Al ritorno dal mio viaggio a Memphis, mi sono chiesto se un documentarista bianco decidesse di fare un film sulla storia della Stax Records. Che smacco sarebbe scoprire che Jim Stewart, fondatore dell’etichetta della Soul music e della sciabola musicale che tagliò a pezzetti le lobby razziste del Tennessee, era paradossalmente “un bianco”. È il caso che Spike Lee faccia un passo indietro.