Oscar Wilde – Il critico come artista 3

Creato il 17 dicembre 2012 da Marvigar4

OSCAR WILDE

IL CRITICO COME ARTISTA

Con alcune considerazioni sull’importanza del non fare niente

Titolo originale: The Critic as Artist – With some remarks upon the importance of doing nothing

Traduzione dall’originale in inglese di Marco Vignolo Gargini

ERNEST. Sei orribilmente caparbio. Io insisto perché tu discuta questo argomento con me. Hai detto che i greci furono una nazione di critici d’Arte. Quale critica d’Arte ci hanno lasciato?

GILBERT. Mio caro Ernest, anche se ci fosse pervenuto neppure un singolo frammento di critica d’Arte dai tempi ellenici o ellenistici, non sarebbe meno vero che i greci siano stati una nazione di critici d’Arte, e che loro abbiano inventato la critica d’Arte così come hanno inventato la critica. Perché, dopo tutto, qual è il nostro principale debito verso i greci? Semplicemente lo spirito critico. e, questo spirito, che hanno esercitato su questioni di religione e scienza, di etica e metafisica, di politica e di istruzione, l’hanno esercitato anche su questioni di Arte, e, invero, sulle due supreme e somme arti, ci hanno lasciato il sistema di critica più perfetto che il mondo abbia mai visto.

ERNEST. Ma quali sono le due supreme e somme arti?

GILBERT. La Vita e la Letteratura, la vita e la perfetta espressione della vita. I principi della prima, così come sono stati formulati dai greci, noi possiamo non comprenderli in un’epoca, la nostra, così rovinata da falsi ideali. I principi della seconda, così come sono stati formulati dai greci, sono, in molti casi, così sottili che a malapena riusciamo a capirli. Riconoscendo che l’Arte più perfetta è quella che rispecchia in modo più pieno l’uomo in tutta la sua infinita varietà, i greci elaborarono la critica del linguaggio, considerato alla luce del semplice materiale di quell’Arte, fino a un punto che noi, con il nostro sistema accentuativo d’enfasi ragionevole o emozionale, possiamo raggiungere poco o punto; studiando, per esempio, i movimenti metrici di una prosa così scientificamente come un moderno musicista studia l’armonia e il contrappunto, e, non occorre dirlo, con un istinto estetico assai più acuto. In questo avevano ragione, come avevano ragione in tutto. A partire dall’introduzione della stampa, e dal fatale sviluppo dell’abitudine alla lettura tra le classi medie e inferiori in questo paese, v’è stata una tendenza nella letteratura a richiamare sempre più la vista, e sempre meno l’udito, che è in realtà il senso che, dal punto di vista dell’Arte pura, dovrebbe cercare di compiacere, e ai cui canoni di piacere dovrebbe sempre conformarsi. Persino l’opera di Mr. Pater, che è, complessivamente, il più perfetto maestro della prosa inglese adesso in attività fra noi, è spesso assai più simile a una tessera di mosaico che a un passaggio musicale, e pare, qua e là, mancare della vera vita ritmica delle parole e della bella libertà e ricchezza di effetto che tale vita ritmica produce. Noi, infatti, abbiamo reso la scrittura un modo definito di composizione, e l’abbiamo trattata come una forma di disegno elaborato. I greci, d’altro canto, consideravano lo scrivere semplicemente come un metodo cronachistico. Il loro esame era sempre la parola parlata nelle sue relazioni musicali e metriche. La voce era il mezzo e l’orecchio il critico. Talvolta ho pensato che la storia della cecità di Omero fosse in realtà un mito artistico, creato nei giorni della critica, e utile a ricordarci non solo che il grande poeta è sempre un veggente, che vede meno con gli occhi del corpo di quanto faccia con gli occhi dell’anima, ma che è anche un vero cantore, che compone la sua canzone dalla musica, ripetendo ogni verso più e più volte a se stesso finché non abbia colto il segreto della sua melodia, cantando nel buio le parole che hanno ali di luce. Certamente, sia o non sia così, fu alla sua cecità, come una occasione, se non come una causa, che il grande poeta dell’Inghilterra dovette molto del maestoso movimento e sonoro splendore dei suoi versi più tardi. Quando Milton non fu più in grado di scrivere iniziò a cantare. Chi vorrebbe raffrontare i ritmi di Comus con i ritmi del Samson Agonistes, o del Paradise lost o Regained? Quando Milton perse la vista compose, come ognuno dovrebbe comporre, con la semplice voce, e così il flauto o la zampogna dei primi tempi diventarono quel potente organo dai molti registri la cui ricca riverberante musica possiede tutta la grandiosità del verso omerico, sebbene non badi ad averne la sua rapidità, ed è l’unica imperitura eredità della letteratura inglese a incedere maestosamente attraverso tutte le epoche, perché al di sopra di esse, e con noi sempre durevole, essendo immortale nella sua forma. Sì: lo scrivere ha danneggiato molto gli scrittori. Noi dobbiamo tornare alla voce. Questo deve essere il nostro banco di prova, e forse allora saremo in grado di apprezzare qualcuna delle sottigliezze della critica d’Arte greca. Così com’è adesso, non ne siamo in grado. Talvolta, quando ho scritto un brano in prosa che io sono stato abbastanza modesto da considerare assolutamente privo di difetti, mi corre nella mente il pensiero terribile di essermi reso reo dell’immorale effeminatezza dell’uso di movimenti trocaici e tribrachici, un crimine per il quale un critico erudito dell’era augustea censura più che appropriata severità il brillante seppur a volte paradossale Egesia. Rabbrividisco quando ci penso, e mi chiedo se l’ammirevole effetto etico della prosa di quell’incantevole scrittore, che una volta in uno spirito di sfrenata generosità verso la parte incolta della nostra comunità proclamò la dottrina mostruosa che la condotta sia i tre quarti della vita, non sarà un giorno interamente annichilito dalla scoperta che i peoni erano stati messi nel modo sbagliato.

ERNEST. Ah! Ora sei irriverente.

GILBERT. Chi non sarebbe irriverente sentendosi dire gravemente che i greci non avevano critici d’Arte? Posso comprendere che si dica che il genio costruttivo dei greci si sia perso nella critica, ma non che la razza cui dobbiamo lo spirito critico non abbia fatto critica. Non mi chiederai di farti una panoramica della critica d’Arte greca da Platone a Plotino. La notte è troppo amabile per questo, e la luna, se ci ascoltasse, metterebbe più ceneri sul suo viso di quante ve ne siano già. Ma pensa soltanto a una piccola opera di critica estetica, la Poetica di Aristotele. Non è perfetta nella forma, perché è scritta male, consistendo di note messe giù per una lezione d’Arte, o di frammenti isolati destinati a un libro più ampio, ma per temperamento e trattamento è perfetta, assolutamente. L’effetto etico dell’Arte, la sua importanza per la cultura, e la sua posizione nella formazione del carattere, sono stati definiti una volta per tutte da Platone; ma qui abbiamo l’Arte trattata non dal punto di vista della morale, ma dal punto di vista puramente estetico. Platone, naturalmente, aveva esaminato molti argomenti artistici in modo preciso, quali l’importanza dell’unità in un’opera d’Arte, la necessità del rapporto tra tono e armonia, il valore estetico delle apparenze, la relazione delle arti visive con il mondo esterno, e il nesso tra finzione e fatto. Egli per primo forse suscitò nell’anima dell’uomo quel desiderio che non abbiamo ancora soddisfatto, il desiderio di conoscere la connessione tra Bellezza e Verità, e il posto della Bellezza nell’ordine morale e intellettuale del Cosmo. I problemi di idealismo e realismo, as li espone, possono sembrare a molti poveri di risultati nella sfera metafisica dell’essere astratto in cui egli li colloca, ma trasferiscili nella sfera dell’Arte, e troverai che sono ancora vitali e pieni di significato. E forse è per questo che come critico della Bellezza Platone è destinato a vivere, e alterando il nome della sfera della sua speculazione troveremo una nuova filosofia. Ma Aristotele, come Goethe, si occupa in primo luogo dell’Arte nelle sue manifestazioni concrete, prendendo la Tragedia, per esempio, e investigando il materiale che essa usa, che è il linguaggio, il suo soggetto, che è la vita, il metodo con cui funziona, che è l’azione, le condizioni sotto le quali rivela se stessa, che sono quelle della presentazione teatrale, la sua struttura logica, che è la trama, e il suo appello finale estetico, che è il senso della bellezza compreso tramite le passioni della pietà e del terrore. Quella purificazione e spiritualizzazione della natura che egli chiama κάθαρσις [1] è, come Goethe vide, essenzialmente estetica, e non è morale, come Lessing immaginò. Occupandosi primariamente dell’impressione che l’opera d’Arte produce, Aristotele si mette analizzare quell’impressione, a ricercare la sua fonte, a vedere come essa s’è generata. Come un fisiologo e uno psicologo, egli sa che la salute di una funzione risiede nell’energia. Esser capaci di una passione e non realizzarla è rendersi incompleti e limitati. Lo spettacolo mimico della vita che la Tragedia offre purifica il petto di molta “perigliosa materia”, e presentando alti e degni oggetti per l’esercizio delle emozioni essa depura e spiritualizza l’uomo; anzi, non lo spiritualizza soltanto, ma lo inizia anche ai nobili sentimenti dei quali egli non avrebbe altrimenti potuto sapere niente, recando la parola κάθαρσις, mi è parso talvolta, una allusione precisa al rito della iniziazione, ammesso che non sia così, come occasionalmente sono tentato a fantasticare, il suo genuino e unico significato in questo punto. Questo è naturalmente un semplice abbozzo del libro. Ma tu vedi quale perfetto brano di critica estetica esso sia. Chi se non proprio un greco avrebbe potuto analizzare l’Arte così bene? Dopo averlo letto, non ci si meraviglia più che Alessandria si sia dedicata così ampiamente alla critica d’Arte, e di trovare i temperamenti artistici dell’epoca che analizzano ogni questione di stile e di maniera, discutendo le grandi scuole accademiche di pittura, per esempio, come la scuola di Sicione, che preservava le dignitose tradizioni dell’antica maniera, o le scuole realistiche e impressionistiche, tese alla riproduzione della vita effettiva, o gli elementi di idealità nella ritrattistica, o il valore artistico della forma epica in un’era così moderna come la loro, o i soggetti appropriati per l’artista. Invero, temo che i temperamenti non artistici dell’epoca si occupassero anche di faccende della letteratura e dell’Arte, dato che le accuse di plagio erano infinite, e tali accuse provengono o dalle labbra sottili e incolori dell’impotenza, o dalle grottesche bocche di chi, non avendo in possesso niente di suo, immagina di poter guadagnare una reputazione di benessere gridando a squarciagola che è stato rapinato. E ti assicuro, mio caro Ernest, che i greci sproloquiavano di pittori esattamente come fanno oggi, e avevano le loro opinioni private, e le mostre prezzolate, e le corporazioni delle arti e dei Mestieri, e movimenti preraffaelliti, e movimenti contro il realismo, e conferenze sull’Arte, e scrivevano saggi sull’Arte, e producevano i loro storici d’Arte, i loro archeologi, e tutto il resto. Ma come, persino gli impresari teatrali delle compagnie di giro si portavano appresso i loro critici drammatici quando andavano in tournée, e li pagavano molto profumatamente perché scrivessero recensioni d’elogio. Ogni cosa, infatti, che sia moderna nella nostra vita noi la dobbiamo ai greci. Ogni cosa che sia un anacronismo è dovuta al medievalismo. Sono i greci che ci hanno dato il sistema globale della critica d’Arte, e quanto fosse pregiato il loro istinto critico lo si può vedere dal fatto che la materia che criticavano con più cura fu, come ho già detto, il linguaggio. Poiché il materiale che il pittore o lo scultore utilizza è scarso rispetto a quello delle parole. Le parole non posseggono solo una musica dolce come quella di viola e liuto, un colore ricco o vivido che ci rendono amabile la tela del Veneziano o dello Spagnolo, e una forma plastica non meno sicura e certa di quella che si rivela nel marmo o nel bronzo, ma pensiero e passione e spiritualità appartengono a loro, per meglio dire appArtengono soltanto a loro. Se i greci non avessero criticato altro che il linguaggio, sarebbero stati ancora i grandi critici d’Arte del mondo. Conoscere i principi of della più alta Arte significa conoscere i principi di tutte le arti.

Ma vedo che la luna si sta nascondendo dietro una nube color zolfo. Dietro una criniera tané di cumuli luccica come un occhio di leone. Ha paura che io ti voglia parlare di Luciano e di Longino, di Quintiliano e di Dionisio, di Plinio e di Fronto e di Pausania, di tutti coloro che nel mondo antico scrissero o tennero lezioni su questioni d’Arte. Ma non deve temere. Io sono stanco della mia spedizione nell’oscuro, sordo abisso dei fatti. Null’altro mi rimane adesso se non il divino :`<@Pk@<@H ²*@<Z [2] di un’altra sigaretta. Le sigarette almeno hanno il fascino di lasciarti insoddisfatto.

ERNEST. Prova una delle mie. Sono piuttosto buone. Me le faccio venire direttamente dal Cairo. La sola utilità dei nostri attachés è che riforniscono i loro amici di eccellente tabacco. E dal momento che la luna s’è nascosta, parliamo ancora un po’. Sono del tutto pronto ad ammettere di aver avuto torto in ciò che ho detto sui greci. Essi furono, come tu hai puntualizzato, una nazione di critici d’Arte. Lo riconosco, e provo un po’ di rincrescimento nei loro confronti. Perché la facoltà creativa è più alta di quella critica. Non c’è davvero alcun paragone tra esse.

GILBERT. L’antitesi tra di esse è del tutto arbitraria. Senza la facoltà critica, non v’è affatto creazione artistica degna di quel nome. Tu hai parlato poco fa di quel raffinato spirito di scelta e di quel delicato istinto di selezione con cui l’artista coglie la vita per noi, e le assegna una momentanea perfezione. Bene, quello spirito di scelta, quel sottile tatto di omissione, è proprio della facoltà critica in uno dei suoi umori più caratteristici, e nessuno sprovvisto della facoltà critica può creare niente in Arte. La definizione di Arnold della letteratura come una critica della vita non fu molto felice nella forma, ma mostrò quanto strenuamente egli riconoscesse l’importanza dell’elemento critico in ogni opera creativa.

ERNEST. Avrei detto che i grandi artisti operassero inconsciamente, che fossero “più saggi di quanto non sapessero”, come, credo, nota Emerson da qualche parte.

GILBERT. Non è proprio così, Ernest. Ogni bella opera immaginativa è cosciente e deliberata. Nessun poeta canta perché deve cantare. almeno, nessun grande poeta. Un grande poeta canta perché sceglie di cantare. È così oggi e così è sempre stato. Talvolta noi siamo portati a pensare che le voci che risuonarono all’alba della poesia fossero più semplici, più fresche, e più naturali delle nostre, e che il mondo che i primi poeti scrutarono, e che traversarono, avesse una sorta di qualità poetica intrinseca, e quasi senza mutamenti potesse trasformarsi in canto. Adesso la neve giace spessa sull’Olimpo, e le sue pareti erte e scoscese sono brulle e aride, ma un tempo, ci immaginiamo, i candidi piedi delle Muse spazzavano al mattino la rugiada dagli anemoni, e la sera veniva Apollo a cantare ai pastori nella valle. Ma in questo noi prestiamo soltanto ad altre epoche il nostro desiderio, o supposto tale, per la nostra. Il nostro senso storico è in errore. Ogni secolo che produce poesia è, finora, un secolo artificiale, e l’opera che a noi sembra essere il più naturale e semplice prodotto del suo tempo è sempre il risultato dello sforzo più consapevole. Credimi, Ernest, non v’è Arte bella senza autoconsapevolezza, e l’autoconsapevolezza e lo spirito critico sono una cosa sola.

ERNEST. Capisco ciò che vuoi dire, è c’è molto di vero. Ma sicuramente ammetterai che i grandi poemi del mondo primordiale, i poemi primitivi, anonimi e collettivi, furono il risultato dell’immaginazione delle razze, più che dell’immaginazione degli individui?

GILBERT. Non quando divennero poesia. Non quando ebbero ricevuto una bella forma. Perché non v’è Arte là dove non v’è stile, e non v’è stile là dove non v’è unità, e l’unità appartiene all’individuo. Nessun dubbio che Omero abbia avuto a disposizione vecchie ballate e storie, come Shakespeare ebbe cronache e drammi e racconti da cui trarre la sua opera, ma furono solo il suo materiale grezzo. Egli le prese, e le plasmò in canto. Divennero le sue, perché le aveva fatte belle. Divennero costruzioni in musica,

E quindi non costruite affatto,

E perciò costruite per sempre.

Più si studia la vita e la letteratura, più si sente con forza che dietro ogni cosa meravigliosa c’è l’individuo, e che non è il momento che fa l’uomo, ma l’uomo che crea l’epoca. Di certo, tendo a pensare che ogni mito e leggenda che ci sembri nascere dalla meraviglia, o dal terrore, o dall’immaginazione tribale o nazionale, vi fosse al suo sorgere l’invenzione di una singola mente. Il numero curiosamente limitato dei miti mi sembra puntare a questa conclusione. ma non dobbiamo addentrarci in questioni di mitologia comparata. Ci dobbiamo attenere alla critica. E ciò che io voglio indicare è questo. Un’epoca che non possiede critica è anche un’epoca in cui l’Arte è immobile, ieratica, e confinata alla riproduzione di tipi formali, o un’epoca che non possiede Arte del tutto. Vi sono state epoche di critica che non sono state creative, nel senso comune della parola, epoche in cui lo spirito dell’uomo ha cercato di mettere ordine tra i tesori della sua tesoreria, di separare l’oro dall’argento, e l’argento dal piombo, per contare le gemme, e dare nomi alle perle. Ma non si è mai data un’epoca creativa che non sia stata anche critica. Poiché è la facoltà critica che inventa forme nuove. La tendenza della creazione è quella di ripetersi. È all’istinto critico che noi dobbiamo ogni nuova scuola che nasce, ogni nuovo modello che l’Arte trova pronto tra le sue mani. Non c’è in realtà una singola forma che l’Arte usi adesso che non ci provenga dallo spirito critico di Alessandria, dove queste forme furono stereotipate o inventate o rese perfette. Dico Alessandria, non soltanto perché fu lì che lo spirito greco divenne più autocosciente, e davvero ultimamente si spense nello scetticismo e nella teologia, ma perché fu grazie a quella città, e non ad Atene, che Roma si rivolse per i suoi modelli, e fu tramite la sopravvivenza, così come successe, della lingua latina che la cultura riuscì a vivere. Quando, nel Rinascimento, la letteratura greca apparve in Europa, il terreno era stato in qualche modo preparato per il suo avvento. Ma, per sbarazzarsi dei dettagli della storia, che sono sempre tediosi e di solito non accurati, diciamo genericamente che le forme dell’Arte sono dovute allo spirito critico greco. Ad esso noi dobbiamo l’epica, la lirica, tutto il teatro in ognuno dei suoi sviluppi, incluso il burlesque, l’idillio, il romanzo romantico, il romanzo d’avventure, il saggio, il dialogo, l’orazione, l’orazione, per la quale forse non dovremmo perdonarli, e l’epigramma, in tutto il significato esteso di quella parola. Infatti, gli dobbiamo tutto, eccetto il sonetto, con il quale, tuttavia, può essere rintracciato qualche curioso parallelo di movimento di pensiero nell’Antologia, il giornalismo americano, a cui nessun parallelo può essere trovato altrove, e la ballata in dialetto scozzese posticcio, che come uno dei nostri più industriosi scrittori ha recentemente proposto dovrebbe costituire la base per un lavoro finale e unanime da parte dei nostri poeti di seconda categoria per divenire davvero romantici. Ogni nuova scuola, a quanto sembra, protesta contro la critica, ma è alla facoltà critica nell’uomo che deve la sua origine. Il mero istinto creativo non innova, ma riproduce.


[1] Catarsi.

[2] Piacere indivisibile.



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