OSCAR WILDE
LA VERITÀ DELLE MASCHERE
Una nota sull’illusione
Titolo originale: The Truth of Masks– A note on illusion
Traduzione dall’originale in inglese di Marco Vignolo Gargini
Riguardo i mezzi che Shakespeare aveva a sua disposizione, va notato che, mentre più di una volta si lamenta della ristrettezza del palco su cui doveva rappresentare i suoi grandi drammi storici, e della mancanza di scenografia che lo obbligava a tagliare molti effetti scenici in esterno, egli scrive sempre come un drammaturgo che dispone di un guardaroba teatrale elaboratissimo, e che può contare su attori che curano in modo particolare il proprio trucco. Anche adesso è difficile allestire una rappresentazione come La Commedia degli errori; al pittoresco infortunio della somiglianza del fratello di Miss Ellen Terry con sua sorella dobbiamo la possibilità di ammirare La dodicesima notte adeguatamente eseguita. Certo, per mettere in scena qualsiasi dramma di Shakespeare, assolutamente come lui stesso avrebbe voluto, occorrono un buon trovarobe, un abile realizzatore di parrucche, un costumista che abbia il senso del colore e una conoscenza dei tessuti, un esperto dell’arte del trucco, un maestro di scherma, un coreografo, e un artista che diriga personalmente tutto l’allestimento. Perché lui ci descrive con molta accuratezza il costume e l’aspetto di ogni personaggio. «Racine abhorre la réalité», dice Auguste Vacquerie da qualche parte; «il ne digne pas s’occuper de son costume. Si l’on s’en rapportait aux indications du poête, Agamemnon serait vêtu d’un sceptre et Achille d’une épée» [1]. Ma Shakespeare è molto diverso. Ci dà indicazioni sui costumi di Perdita, Florizel, Autolico, sulle streghe in Macbeth, sul farmacista in Romeo e Giulietta, parecchie descrizioni del corpulento cavaliere, e una dettagliata didascalia dell’abito eccezionale che Petruchio indossa per le sue nozze. Rosalina, ci dice, è alto, e deve portare una lancia e un piccolo pugnale; Celia è più minuta, e deve truccare di bruno la sua faccia per apparire abbronzata. I bambini che recitano nel ruolo delle fate nella foresta di Windsor devono essere abbigliati in bianco e verde – un omaggio, tra parentesi, alla regina Elisabetta, i cui colori preferiti erano il bianco e il verde – e gli angeli si devono recare da Caterina in Kimbolton in bianco, con ghirlande verdi e visiere dorate. Bottom porta abiti di stoffa grossa, Lisandro si distingue da Oberon per il fatto che indossa una veste ateniese, e Launce ha gli stivali bucati. La duchessa di Gloucester sta in un candido lenzuolo con suo marito che le piange accanto. L’abito variopinto del buffone, il rosso scarlatto del Cardinale, e i gigli francesi ricamati sui mantelli inglesi, sono tutti spunti per la celia o il sarcasmo nel dialogo. Conosciamo il motivo disegnato sull’armatura del Delfino e sulla spada della Pulzella, il cimiero sull’elmetto di Warwick e il colore del naso di Bardolph. Portia ha i capelli dorati, Febo è moro, Orlando ha i riccioli castani, e la capigliatura di Sir Andrew Aguecheek sta come lino su una conocchia, senza arricciarsi. Alcuni personaggi sono robusti, altri magri, alcuni ben eretti, altri gobbi, alcuni chiari, altri scuri, e alcuni devono tinger di nero i loro volti. Lear porta una barba bianca, il padre di Amleto ce l’ha brizzolata, e Benedick si deve radere nel corso del dramma. Infatti, sull’argomento delle barbe posticce Shakespeare è piuttosto pignolo; ci illustra l’uso di molti colori diversi, e agli attori dà sempre delle indicazioni per assicurarsi che le barbe siano fissate bene. C’è una danza di mietitori con cappelli di paglia, e di contadini con gabbane irsute come satiri; una maschera di amazzone, una maschera di russo, e una maschera classica; diverse scene immortali su un tessitore con la testa d’asino, una rissa sul colore di un soprabito che deve essere sedata dal Lord Mayor di Londra, e una scena tra un marito infuriato e sua moglie modista sull’apertura di una manica.
Riguardo le metafore che Shakespeare trae dall’abbigliamento, e gli aforismi che vi costruisce sopra, le sue battute rivolte ai costumi del suo tempo, in modo particolare alla ridicola grandezza dei cappelli da donna, le svariate descrizioni del mundus muliebris, dalla canzone di Autolico nel Racconto d’inverno fino alla descrizione della veste della Duchessa di Milano in Tanto rumore per nulla, sono troppo numerose da citare; anche se vale la pena di rammentare alla gente che la filosofia dei costumi nel suo complesso si trova nella scena del Re Lear con Edgardo [2] – un passaggio che ha la prerogativa della brevità e dello stile sulla saggezza grottesca e la metafisica piuttosto enfatica del sartor resartus. Ma credo che da quanto ho già affermato risulti chiaro che Shakespeare fosse molto interessato al costume. Non intendo in quel senso superficiale, con cui s’è dedotta la sua conoscenza degli eventi e degli asfodeli, che egli fosse il Blackstone e il Paxton dell’epoca elisabettiana; ma che egli vide che il costume poteva esser a un tempo produrre impressioni di un certo effetto sul pubblico ed esprimere certi tipi di personaggio, ed è uno dei fattori essenziali dei mezzi che un vero illusionista ha a sua disposizione. Infatti per lui la figura deforme di Riccardo e l’avvenenza di Giulietta avevano lo stesso valore; egli mette la saia del radicale accanto alle sete del signore, e considera gli effetti scenici che ne derivano: egli trae piacere sia da Calibano che da Ariel, sia dagli stracci che dai vestiti dorati, e riconosce la bellezza artistica della bruttezza.
La difficoltà di Ducis nel rappresentare Otello per l’importanza data a un oggetto tanto volgare come un fazzoletto, e il suo sforzo nell’attenuarne la grossolanità facendo ripetere al Moro ‘Le bandeau! le bandeau!’ può esser presa come un esempio della differenza tra la tragedie philosophique e il dramma della vita vera; e l’introduzione per la prima volta della parola mouchoir al Théâtre Français fece epoca in quel movimento romantico-realistico, di cui Hugo è il padre e M. Zola l’enfant terrible, esattamente come il classicismo della prima metà del secolo fu enfatizzato dal rifiuto di Talma di continuare a recitare gli eroi greci con una parrucca incipriata – uno dei molti esempi, tra l’altro, di quel desiderio per la precisione archeologica nel vestiario che ha distinto i grandi attori del nostro tempo.
Nel criticare l’importanza data ai soldi ne La comedie humaine, Theophile Gautier afferma che Balzac può reclamare d’aver inventato un nuovo eroe nella finzione, Le heros metallique. Di Shakespeare si può dire che sia stato il primo a vedere il valore drammatico dei farsetti, e che un climax può dipendere da una crinolina.
L’incendio del Globe Theatre – un evento dovuto, per inciso, ai risultati della passione per l’illusione che contraddistinse la direzione di scena di Shakespeare – purtroppo ci ha sottratto molti importanti documenti; ma nell’inventario, tuttora esistente, del guardaroba di un teatro di Londra al tempo di Shakespeare, sono menzionati dei costumi particolari per cardinali, pastori, re, clowns, frati, e buffoni; mantelli verdi per gli uomini di Robin Hood, e una veste verde per Maid Marian; un farsetto bianco e oro per Enrico V, e una toga per Longshanks; e inoltre cotte, cappe, abiti di damasco, vesti intessute d’oro e d’argento, di taffetá, di calicò, manti di velluto, di satin, di panno di lana, giustacuori di cuoio giallo e nero, completi rossi, grigi, abiti da Pierrot francese, una veste ‘per andare invisibili’, che sembra a poco costo, per 3 sterline e 10 scellini, e quattro incomparabili fardingale – e tutti questi mostrano un desiderio di dare a ogni personaggio un abito appropriato. Vi sono anche note di abiti spagnoli, moreschi e danesi, di elmetti, lance, scudi dipinti, corone imperiali, e tiare papali, così come costumi per giannizzeri turchi, senatori romani, e per tutti gli dèi e le dèe dell’Olimpo, che evidenziano una estrema ricerca archeologica da parte della direzione del teatro. È vero che c’è una menzione di un corsetto per Eva, ma forse il donnée del dramma era dopo la Caduta.
Certamente, chiunque abbia interesse ad esaminare l’epoca di Shakespeare si accorgerà che l’archeologia era una delle sue caratteristiche peculiari. Dopo la ripresa delle forme classiche in architettura, che fu una delle note del Rinascimento, e la stampa a Venezia e altrove dei capolavori della letteratura greca e latina, sorse naturale un interesse per gli ornamenti e i costumi del mondo antico. E non fu per l’apprendimento che potevano acquisire, ma piuttosto per la grazia che avrebbero potuto creare, che gli artisti studiarono queste cose. Gli oggetti curiosi che furono costantemente portati alla luce negli scavi non vennero lasciati ad ammuffire in un museo, alla contemplazione di un curatore insensibile, e alla ennui di un gendarme annoiato dalla mancanza di reati. Furono usati come spunti per la produzioni di un’arte nuova, che non doveva essere solo bella, ma anche stravagante.
Infessura [3] ci narra che nel 1485 alcuni operai che scavavano sulla Via Appia s’imbatterono in un vecchio sarcofago romano con l’iscrizione ‘Giulia, figlia di Claudio’. Aprendo la bara trovarono dentro il marmo il corpo di una bella ragazza di circa quindici anni, preservata grazie all’abilità dell’imbalsamatore dalla corruzione del tempo. I suoi occhi erano semiaperti, i capelli acconciati in riccioli d’oro, e dalle labbra e dalle gote il fiore della sua verginità non era andato perso. Riportata al Campidoglio, essa divenne subito il centro di un nuovo culto, e da ogni parte della città folle di pellegrini si accalcavano per ammirare la meravigliosa tomba, finché il Papa, per timore che coloro che avevano trovato il segreto della bellezza in una tomba pagana potessero dimenticare i segreti contenuti nei sepolcri di pietra rozza di Giudea, di notte fece rimuovere il corpo e lo fece seppellire in segreto. Ammesso pure il valore leggendario, tuttavia questa storia ha il pregio di dimostrarci l’atteggiamento del Rinascimento verso il mondo antico. L’archeologia per loro non era una mera scienza da antiquari; era un mezzo per poter trasfondere l’arida polvere dell’antichità nello stesso respiro e bellezza della vita, e colmare con il nuovo vino del romanticismo forme che altrimenti sarebbero state vecchie e consunte. Nel pulpito di Nicola Pisano fino al Trionfo di Cesare di Mantegna, e nel servizio che Cellini disegnò per re Francesco, si può rintracciare l’influenza di questo spirito; né rimase relegato solo nelle arti immobili – le arti del movimento arrestato – ma la sua influenza la si notava anche nei mascheroni greco-romani, che erano il divertimento costante delle allegre corti del tempo, e nelle pubbliche parate e processioni con cui i cittadini delle grandi città commerciali erano soliti salutare i principi che capitavano in visita da loro; parate, tra parentesi, considerate così importanti che di esse si facevano delle stampe e le si pubblicavano – fatto che attesta l’interesse generale di allora verso simili situazioni.
E questo uso dell’archeologia negli spettacoli, lungi dall’essere una pedanteria presuntuosa, è in ogni aspetto legittimato e bello. Perché il teatro non è solo il luogo di raccordo di tutte le arti, ma anche il ritorno dell’arte alla vita. Talvolta in un romanzo storico l’uso di termini strani e obsoleti pare nascondere la realtà sotto l’erudizione, e oso dire che molti dei lettori di Notre dame de Paris sono rimasti perplessi circa il senso di espressioni come la casauque à mahoitres, les voulgiers, le gallimard taché d’encre, les caraquiniers [4], e simili; ma con la scena com’è diverso! Il mondo antico si ridesta, e la storia incede come in parata davanti ai nostri occhi, senza obbligarci a far ricorso al dizionario o a un’enciclopedia per la perfezione del nostro godimento. Infatti, non c’è la minima necessità che il pubblico conosca le fonti dell’allestimento d’ogni spettacolo. Da accessori, per esempio, come il disco di Teodosio, accessori con cui la maggioranza delle persone probabilmente non ha molta familiarità, Mr. E. W. Godwin, uno degli spiriti più artistici di questo secolo in Inghilterra, ha creato la bellezza magnifica del primo atto del Claudiano, e ci ha illustrato la vita di Bisanzio nel IV secolo, non con una monotona conferenza e una serie di truci stampi, non con un romanzo che richiede un glossario, ma con la vistosa rappresentazione davanti a noi di tutta la gloria di quella grande città. E mentre i costumi erano fedeli fino al più piccolo punto di colore e disegno, ai dettagli non venne assegnata quell’importanza abnorme che gli viene conferita necessariamente durante un’accurata conferenza, ma erano subordinati alle regole di un’alta composizione e all’unità dell’effetto artistico. Mr. Symonds, parlando di quel grande dipinto del Mantegna, che si trova in Hampton Court, afferma che l’artista ha convertito un motivo antico in un tema di melodie di linee. Lo stesso si potrebbe dire con ugual giustizia della scena di Mr. Godwin. Solo lo sciocco la chiamerebbe pedanteria, solo chi che non vede né ascolta direbbe che la passione del dramma è stata smorzata dal trucco. Si tratta in realtà di una scena non soltanto perfetta nel suo carattere pittorico, ma anche assolutamente drammatica, che faceva a meno della necessità di descrizioni tediose, e che ci mostrava, attraverso il colore e le caratteristiche della veste di Claudiano, e degli abiti dei suoi servi, tutta la natura e la vita dell’uomo, da quale scuola di filosofia fosse influenzata, fino a quale cavallo egli montava alle corse.
E l’archeologia è davvero gradevole quando è tradotta in una forma d’arte. Non intendo sottovalutare i servigi degli studiosi meticolosi, ma ho la sensazione che l’uso fatto da Keats del Dizionario di Lemprière valga di più per noi della trattazione del Professor Max Muller dello stesso tema mitologico come un’affezione del linguaggio. Meglio Endimione di qualsiasi teoria, per quanto fondata, o, come nell’esempio presente, infondata, su un’epidemia tra gli aggettivi! E chi non pensa che la maggior gloria del libro di Piranesi [5] sui Vasi sia quella d’aver dato a Keats il suggerimento per la sua Ode su un’urna greca? L’arte, e solo l’arte, può rendere bella l’archeologia; e l’arte teatrale la può usare in modo più diretto e vivido, poiché essa è capace di combinare in una squisita rappresentazione l’illusione della vita autentica con lo stupore del mondo irreale. Ma il XVI secolo non fu solo l’epoca di Vitruvio; è stata anche l’età di Vecellio. Ogni nazione all’improvviso sembrava interessarsi all’abbigliamento dei suoi vicini. L’Europa cominciò ad analizzare i propri vestiti, e il numero di libri pubblicati sui costumi nazionali è davvero straordinario. Agli inizi del secolo il Nuremberg Chronicle, con le sue duemila illustrazioni, raggiunse la quinta edizione, e prima della fine del secolo furono pubblicate diciassette edizioni della Cosmografia di Munster. Oltre a questi due libri c’erano anche le opere di Michael Colyns, di Hans Weigel, di Amman, dello stesso Vecellio, tutte illustrate, e alcuni dei disegni di Vecellio probabilmente furono eseguiti proprio da Tiziano.
Non fu solo attraverso libri e trattati che acquisirono la loro conoscenza. Lo sviluppo dell’abitudine dei viaggi all’estero, l’incremento dei rapporti commerciali tra i paesi, e la frequenza delle missioni diplomatiche, offrì a ogni nazione molte opportunità per studiare le varie forme degli abiti contemporanei. Dopo la partenza dall’Inghilterra, per esempio, degli ambasciatori dello Zar, del Sultano e del principe del Marocco, Enrico VIII e i suoi amici dettero parecchi balli in maschera con le insolite vesti dei loro ospiti. Più tardi Londra conobbe, troppo spesso, il tetro splendore della corte spagnola, e da Elisabetta giunsero inviati da tutte le terre, i cui abiti, Shakespeare ci dice, ebbero un’importante influenza sul costume inglese.
E l’interesse non si limitò solo all’abbigliamento, o a quello delle nazioni straniere; vi fu anche una notevole ricerca, specialmente tra gli addetti del teatro, sugli antichi costumi d’Inghilterra: e quando Shakespeare, nel prologo di uno dei suoi drammi, esprime il rammarico di non poter produrre elmetti del periodo, parla come un impresario elisabettiano e non solo come un poeta elisabettiano. A Cambridge, per esempio, ai suoi tempi, fu rappresentato un Riccardo III, in cui gli attori erano vestiti con gli abiti autentici dell’epoca, procurati dalla grande collezione di costumi storici della Torre, che era sempre aperta alle visite degli impresari, e talvolta messa a loro disposizione. E non posso fare a meno di pensare che quell’allestimento deve essere stato di gran lunga il più artistico, per ciò che concerne i costumi, di quello che fece Garrick dell’omonimo dramma di Shakespeare, in cui Garrick stesso recitò con un abito indescrivibile di pura fantasia, gli altri attori nei costumi dei tempi del re Giorgio III, e in special modo Richmond molto ammirato nell’uniforme di una giovane guardia.
Perché qual è l’utilità a teatro di quella archeologia che ha così stranamente terrificato i critici, se non quella, e quella soltanto, che può darci l’architettura e l’abbigliamento adatto al tempo in cui si svolge l’azione del dramma? Ci permette di vedere un greco vestito come un greco, e un italiano come un italiano; di godere le arcate di Venezia e i balconi di Verona; e, se lo spettacolo si occupa di una delle epoche della storia nostro paese, di contemplare l’epoca nel suo proprio aspetto, e il re negli abiti in cui è vissuto. E mi chiedo, tra l’altro, cosa avrebbe detto Lord Lytton tempo fa, al Princess’s Theater, se il sipario si fosse alzato mostrando il Bruto di suo padre seduto su una sedia in stile Regina Anna, con addosso una fluente parrucca e con una veste da camera a fiori, un costume considerato il secolo scorso particolarmente adatto per un antico romano! Perché in quei giorni felici del teatro l’archeologia non turbava la scena, né affliggeva i critici, e i nostri poco artistici nonni sedevano in pace in una soffocante atmosfera di anacronismo, e ammiravano con la calma compiacenza dell’età della prosa un Iachimo incipriato e con nei posticci, un Lear guarnito di pizzi, e una Lady Macbeth in ampie crinoline. Posso capire che si contesti l’archeologia sulla base del suo eccessivo realismo, ma attaccarla come pedante mi sembra davvero che oltrepassi il segno. Tuttavia, è da stolti avversarla per qualsiasi ragione; si potrebbe parlare altrettanto irriverentemente dell’equatore. Poiché l’archeologia, essendo una scienza, non è né buona né cattiva, ma semplicemente un fatto. Il suo valore dipende interamente da come la si usa, e solo un artista è in grado di usarla. Ci affidiamo all’archeologo per i materiali, all’artista per il metodo.
[1] Tr. «Racine detesta la realtà, non si degna di considerare il suo costume. Se stiamo alle indicazioni del poeta, Agamennone sarebbe vestito d’uno scettro e Achille d’una spada.»
[2] William Shakespeare, Re Lear, Atto II, Scena III.
[3] Stefano Infessura (1436-1498), notaio e cronista vissuto a Roma, è autore di un Diario della città di Roma, scritto in latino e in volgare, che prende in esame il periodo che va dalla morte di papa Bonifacio VIII (1303) fino al 1494.
[4] Tr. Casacca con maniche imbottite, gli alabardieri, l’astuccio macchiato d’inchiostro, i marinai di caracks.
[5] Giovanni Battista Piranesi (1720-1778), architetto, incisore, acquafortista, scrisse Vasi, candelabri, cippi (1778), opera che Wilde cita.