Oscar Wilde – La verità delle maschere 3

Creato il 03 novembre 2012 da Marvigar4

OSCAR WILDE

LA VERITÀ DELLE MASCHERE

Una nota sull’illusione

Titolo originale: The Truth of Masks– A note on illusion

   Nel disegnare la scenografia e i costumi per un dramma di Shakespeare, la prima cosa che l’artista deve stabilire è l’epoca migliore. Questa dovrebbe essere determinata dallo spirito generale del dramma, più che dai veri riferimenti storici che vi si possono trovare. Molti degli Amleti da me visti sono stati ambientati in un’epoca troppo lontana. Amleto è essenzialmente uno studente della Rinascita della Cultura; e se l’allusione alla recente invasione dell’Inghilterra da parte dei Danesi lo colloca al nono secolo, l’uso dei fioretti lo porta molto più in là nel tempo. Comunque, una volta che la data è stata fissata, allora sta all’archeologo fornirci dei fatti che l’artista ha l’obbligo di convertire in effetti scenici.

   È stato detto che gli anacronismi negli stessi drammi ci dimostrano che Shakespeare fu indifferente alla precisione storica, ed è stata scritta a caratteri cubitali la citazione sbadata che Ettore fa da Aristotele. D’altro canto, gli anacronismi sono davvero pochi, e non molto importanti, e, se un fratello artista glieli avesse fatti notare, Shakespeare li avrebbe probabilmente corretti. Perché, sebbene a stento possano esser definiti imperfezioni, certamente non sono parte della grande bellezza della sua opera; o, almeno, se ne sono parte, il loro fascino anacronistico non può essere enfatizzato se il dramma non è allestito con accuratezza secondo l’epoca esatta. Dando uno sguardo all’intera opera drammatica di Shakespeare, tuttavia, ciò che davvero merita attenzione è la sua straordinaria fedeltà nei confronti dei personaggi e delle trame. Molte delle sue dramatis personæ sono persone veramente esistite, e alcune di esse una parte del suo pubblico può averle incontrate nella vita reale. Di certo, l’attacco più violento che all’epoca fu mosso a Shakespeare riguardava la sua presunta caricatura di Lord Cobham. Circa le sue trame, Shakespeare le trasse fedelmente sia dalla storia vera, o dalle vecchie ballate e tradizioni che avevano la funzione di storia per il pubblico elisabettiano, e che anche adesso nessun storico scientifico le respingerebbe come assolutamente false. E non solo selezionava i fatti al posto della fantasia come base di molte delle sue opere immaginative, ma conferiva sempre a ogni dramma il carattere generale, l’atmosfera sociale, in una parola, dell’epoca in questione. Egli riconobbe nella stupidità una delle caratteristiche permanenti della civiltà europea; tanto da non scorgere alcuna differenza tra una folla londinese dei suoi tempi e una folla romana dei giorni pagani, tra uno stolto guardiano di Messina e uno sciocco Giudice di Pace di Windsor. Ma quando si occupa dei personaggi di più alta levatura, con le eccezioni di ciascuna epoca che sono tanto belle da divenire i suoi tipi, egli dà loro assolutamente il marchio e il sigillo del loro tempo. Virgilia è una di quelle donne romane sulla cui tomba era inciso ‘Domi mansit, lanam fecit’, così come sicuramente Giulietta è la fanciulla romantica del Rinascimento. Shakespeare è persino fedele alle caratteristiche della razza. Amleto ha tutta l’immaginazione e l’irresolutezza delle nazioni nordiche, e la Principessa Caterina è francese come l’eroina di Divorziamo!. Enrico V è un inglese puro, e Otello un vero moro.

   Inoltre, quando Shakespeare tratta la storia dell’Inghilterra dal quattordicesimo al sedicesimo secolo, è prodigioso per come si assicura che i fatti siano perfettamente esatti – infatti egli segue Holinshed con singolare fedeltà. Le guerre incessanti tra Francia e Inghilterra sono descritte con straordinaria precisione fino ai nomi delle città poste sotto assedio, i porti di attracco e d’imbarco, i luoghi e le date delle battaglie, i titoli degli ufficiali d’entrambi gli schieramenti, e l’elenco dei morti e dei feriti. Riguardo alla Guerra delle Rose abbiamo molte genealogie elaborate dei sette figli di Edoardo III; le rivendicazioni del trono delle Casate rivali di York e Lancaster sono a lungo argomentate; e se l’aristocrazia inglese non vorrà leggere Shakespeare come poeta, certamente lo dovrebbe leggere come una sorta di Peerage [1] ante litteram. Non c’è un singolo titolo nella Camera Alta, con l’eccezione naturalmente di quelli poco interessanti assunti dai Lords di legge, che non appaia in Shakespeare con molti dettagli della storia familiare, titoli degni d’elogio o meno che fossero. Se è davvero necessario che gli allievi delle scuole sappiano tutto sulla Guerra delle Rose, potrebbero imparare le loro lezioni da Shakespeare come dai libri di testo da uno scellino, e impararle, non occorre dirlo, in modo molto più piacevole. Perfino ai tempi di Shakespeare era riconosciuta questa utilità dei suoi drammi. ‘I drammi storici insegnano la storia a quelli che non la possono leggere nelle cronache’, afferma Heywood in un passo sul teatro, eppure io sono sicuro che le cronache del sedicesimo secolo erano molto più gradevoli da leggere dei libri di testo del diciannovesimo secolo.

   Naturalmente il valore estetico dei drammi di Shakespeare non dipende minimamente dai fatti rappresentati, ma dalla loro Verità, e la Verità è sempre indipendente dai fatti, dal momento che li inventa o li seleziona a proprio piacere. Ma in fondo l’uso dei fatti in Shakespeare è una parte assai interessante del suo metodo di lavoro, e ci mostra il suo talento per la scena, e i suoi rapporti con la grande arte dell’illusione. Certamente Shakespeare si sarebbe stupito tantissimo se qualcuno avesse classificato i suoi drammi alla stregua di ‘racconti di fate’, come fa Lord Lytton; perché uno dei suoi scopi era di creare in Inghilterra un dramma storico nazionale, che trattasse di eventi di cui il pubblico era bene informato, e di eroi che vivevano nella memoria della gente. Il patriottismo, inutile dirlo, non è necessariamente una qualità dell’arte; ma significa, per l’artista, la sostituzione di un sentimento universale con uno individuale, e per il pubblico la rappresentazione di un’opera d’arte in una forma più attraente e popolare. Vale la pena di notare che il primo e l’ultimo successo di Shakespeare furono entrambi drammi storici.

  Ci si potrebbe chiedere, che cosa ha a che fare questo con l’atteggiamento di Shakespeare verso il costume? La mia risposta è che un drammaturgo che ha posto in tale rilievo la precisione storica dei fatti avrebbe accolto la precisione storica del costume come un’aggiunta molto importante al suo metodo illusionistico. E non esito a dire che così fece. Il riferimento agli elmetti del periodo nel prologo di Enrico V può essere considerato fantasioso, sebbene Shakespeare deve aver visto spesso

Solo gli elmi

che misero spavento all’aria di Agincourt [2],

   dove sono ancora appesi nella tetra oscurità dell’Abbazia di Westminster, con la sella di quel ‘figlio della fama’, e lo scudo segnato da tacche con la fodera lacerata di velluto blu e i macchiati gigli d’oro; ma l’uso delle cotte militare in Enrico VI è un brano di pura archeologia, dato che non si indossavano nel XVI secolo; e potrei citare che la stessa cotta del Re era ancora sospesa sul suo sepolcro nella Cappella di St. George, a Windsor, ai tempi di Shakespeare. Poiché, fino allo sventurato trionfo dei filistei nel 1645, le cappelle e le cattedrali d’Inghilterra erano i grandi musei nazionali dell’archeologia, e in essi venivano custodite le armature e le vesti degli eroi della storia inglese. Un buon numero di cimeli era naturalmente conservato nella Torre, e perfino in epoca elisabettiana i turisti erano condotti là ad ammirare quelle curiose reliquie del passato, come la lancia enorme di Charles Brandon, che, credo, sia ancora l’attrattiva dei visitatori del nostro paese; ma le cattedrali e le chiese erano, di regola, scelte come i reliquiari più consoni per la raccolta di antichità storiche. A Canterbury si mostra ancora l’elmo del Principe Nero, a Westminster gli abiti dei nostri re, e nella vecchia cattedrale di San Paolo lo stesso stendardo che aveva sventolato sul campo di Bosworth fu appeso da Richmond in persona.

   Infatti, ovunque Shakespeare si voltasse a Londra, vedeva le acconciature e gli accessori del passato, ed è impossibile dubitare che non sfruttasse tali opportunità. L’impiego della lancia e dello scudo, per esempio, nelle vere battaglie, frequenti nei suoi drammi, deriva dall’archeologia e non dagli equipaggiamenti militari del suo tempo; e l’uso generale ch’egli fa dell’armatura in battaglia non era una caratteristica della sua epoca, quando stava rapidamente sparendo davanti alle armi da fuoco. Di più, l’insegna sull’elmo di Warwick, di cui si tiene gran conto nell’Enrico VI, è del tutto corretta in un dramma del XV secolo, secolo in cui generalmente si portava, ma non lo sarebbe stata in un dramma dei tempi di Shakespeare, quando piume e penne l’avevano sostituita – una moda che, come ci descrive nell’Enrico VIII, fu importata dalla Francia. Quindi, per i drammi storici di sicuro ci si avvalse dell’archeologia, e anche nel caso degli altri sono certo che fu così. L’apparizione di Giove sulla sua aquila, con la folgore in mano, di Giunone con i suoi pavoni, e di Iris col suo arco variopinto; la maschera delle Amazzoni e la maschera dei Cinque Valorosi, possono essere considerate tutte storiche; ed è chiaramente così la visione che Postumo ha nella prigione di Sicilio Leonato – ‘un vecchio, in abiti guerreschi, che conduce un’anziana matrona’. Del ‘vestito ateniese’ che distingueva Lisandro da Oberon ho già parlato; ma uno degli esempi più notevoli riguarda il caso del costume di Coriolano per il quale Shakespeare fa diretto riferimento a Plutarco. Questo storico, nelle sue Vite dei grandi romani, ci descrive la corona di foglie di quercia con cui Caio Marzio cinse la sua testa, e il curioso tipo di veste indossata, secondo la moda antica, per sollecitare i voti dei suoi elettori; e su entrambi i punti Plutarco fa una lunga disquisizione, ricercando l’origine e il significato dei vecchi costumi. Shakespeare, nello spirito del vero artista, accetta i fatti dello storico e li converte in effetti drammatici e pittoreschi: infatti, l’abito dell’umiltà, ‘l’abito di lana’, come Shakespeare lo chiama, è la nota centrale del dramma. Potrei citare altri casi, ma questo è più che sufficiente per il mio scopo; e da ciò comunque si evidenzia che, allestendo un dramma con i costumi appropriati del tempo, in accordo con le migliori autorità, realizziamo le volontà e il metodo di Shakespeare.

   Anche se così non fosse, non avremmo motivo di riproporre i difetti che si suppone abbiano caratterizzato le messe in scena di Shakespeare, come non avremmo motivo di far recitare Giulietta da un ragazzo, o di rinunciare ai vantaggi dei cambi di scenografia. Una grande opera d’arte drammatica non dovrebbe essere solo l’espressione della moderna passione per mezzo dell’attore, ma dovrebbe essere rappresentata nella forma più consona allo spirito moderno. Racine realizzò i suoi drammi romani in abiti stile Luigi XIV su un palco circondato da spettatori; ma noi abbiamo bisogno di condizioni diverse per godere della sua arte. Abbiamo bisogno di una precisione perfetta nel dettaglio, per una perfetta illusione. Ciò che dobbiamo capire è che non va concesso ai dettagli di usurpare il posto principale. Devono essere sempre soggetti al motivo generale del dramma. Ma la subordinazione in arte non significa inosservanza della verità; significa convertire i fatti in effetto, e assegnare a ogni dettaglio il suo proprio valore relativo.

‘Les petits details d’histoire et de vie domestique (dice Hugo) doivent être scrupuleusement étudiés et reproduits par le poête, mais uniquement comme des moyens d’accroitre la réalite de l’ensemble, et de faire pénétrer jusque dans les coins les plus obscurs de l’œuvre cette vie générale et puissante au milieu de la quelle les personnages sont plus vrais, et les catastrophes, par conséquant, plus poignantes. Tout doit être subordonné à ce but. L’Homme sur le premier plan, le reste au fond’. [3]

   Questo brano è interessante poiché scritto dal primo grande drammaturgo francese che portò l’archeologia in scena, e i cui drammi, seppur assolutamente corretti nei dettagli, sono noti a tutti per la loro passione, non per la loro pedanteria – per la loro vita, non per la loro cultura. È vero che egli ha fatto certe concessioni nel caso dell’impiego d’espressioni curiose o strambe. Ruy Blas parla di M. de Priego come ‘sujet du roi’ anzichè ‘noble du roi’, e Angelo Malipieri di ‘la croix rouge’ anziché ‘la croix de gueules’. Ma sono concessioni fatte al pubblico, o almeno a una parte di esso. ‘J’en offre ici toute mes excuses aux spectateurs intelligents’, dice in una nota a uno dei suoi drammi; ‘espérons qu’un jour un seigneur vénitien pourra dire tout bonnement sans péril son blason sur le théâtre. C’est un progrès qui viendra’ [4]. E, sebbene la descrizione del blasone non sia espressa nel linguaggio accurato, tuttavia il blasone è in sé giusto. Si potrebbe dire che il pubblico non bada a questo; d’altronde, bisognerebbe rammentare che l’arte non ha altro scopo che la sua propria perfezione, e segue semplicemente le sue leggi, e che il dramma, che Amleto definisce ‘caviale per la massa’, viene da lui molto lodato. Inoltre, in Inghilterra, comunque, il pubblico s’è trasformato; apprezza di più la bellezza adesso rispetto a pochi anni fa; e anche se non hanno confidenza con i dati storici e archeologici che hanno sotto gli occhi, tuttavia ne ammirano la bellezza. E questa è la cosa importante. Meglio godere di una rosa che mettere la sua radice sotto un microscopio. La precisione storica non è solo una condizione dell’effetto scenico illusionistico; non è la sua qualità. E la proposta di Lord Lytton di confezionare abiti che siano belli senza tener conto della precisione storica si fonda sul fraintendimento della natura del costume, e del suo valore in scena. Questo valore è doppio, pittoresco e drammatico; il primo dipende dal colore dell’abito, il secondo dal disegno e dal carattere. Ma i due valori sono così intrecciati che, tutte le volte ai giorni nostri la precisione storica è trascurata, e i vari abiti in un dramma sono stati presi da epoche diverse, il risultato è stato che la scena s’è trasformata in quel caos del costume, quella caricatura dei secoli, il Ballo in Maschera, fino alla completa rovina di ogni effetto drammatico e pittoresco. Poiché gli abiti di un’epoca non si armonizzano artisticamente con gli abiti di un’altra: e, riguardo il valore drammatico, confondere i costumi è confondere il dramma. L’abito rappresenta una crescita, un’evoluzione, e un importantissimo, forse il più importante, segno dei modi, usi e costumi di vita di ciascun secolo. L’avversione puritana per il colore, l’ornamento e la grazia nell’abbigliamento appartenne alla grande rivolta della classe media contro la Bellezza nel XVII° secolo. Uno storico che trascurasse questo ci darebbe un quadro assai impreciso dell’epoca, e un drammaturgo che non si servisse di questo perderebbe un elemento, il più vitale, nel produrre un effetto illusionistico. L’effeminatezza dei vestiti che caratterizzò il regno di Riccardo II è un tema costante degli autori contemporanei. Shakespeare, scrivendo due secoli dopo, fa dell’infatuazione del re per le vesti sgargianti e le mode straniere il clou del dramma, dai rimbrotti di John Gaunt fino al discorso di Riccardo stesso nel terzo atto sulla sua deposizione dal trono. E che Shakespeare abbia visto la tomba di Riccardo nell’Abbazia di Westminster mi sembra certo dal discorso di York:

Guardate, guardate, re Riccardo appare di persona come il sole rosso di scontento quando dal portale di fuoco d’oriente vede che nuvole invidiose lo minacciano nel suo fulgore. [5]

   Perché possiamo ancora distinguere sulla veste del re il suo simbolo preferito – il sole che spunta da una nuvola. Difatti, in ogni epoca le condizioni sociali sono talmente esemplificate dal costume, che inscenare un dramma del XVI° secolo con abiti del XIV secolo, o viceversa, farebbe sembrare la performance irreale perché non vera. E, dato che la bellezza dell’effetto scenico è preziosa, la bellezza più alta non è solo comparabile con l’assoluta precisione nel dettaglio, ma dipende in realtà da essa. Inventare completamente un nuovo costume è quasi impossibile se non nel burlesque o nell’extravaganza, e far coincidere abiti di secoli diversi in uno solo sarebbe un esperimento pericoloso, e l’opinione Shakespeare sul valore artistico di tale mescolanza si può evincere dalla sua continua satira dei dandy elisabettiani, che credevano d’essere eleganti perché prendevano i farsetti in Italia, i cappelli in Germania, e i calzoni in Francia. E andrebbe notato che le più belle scene mai realizzate nei nostri teatri sono state quelle caratterizzate dalla perfetta accuratezza, come le rievocazioni del XVIII secolo di Mr. e Mrs. Bancroft a Haymarket, il superbo Tanto rumore per nulla di Mr. Irying, e il Claudiano di Mr. Barrett. Inoltre, e questa è forse la risposta più completa alla teoria di Lord Lytton, va ricordato che il fine principale del drammaturgo non è affatto la bellezza del dialogo o del costume. Il vero drammaturgo ha come primo scopo ciò che è caratteristico, e non desidera che i suoi personaggi siano ben vestiti più di quanto desideri che abbiano un’indole buona o parlino un bell’inglese. Il vero drammaturgo, infatti, ci mostra la vita sotto le condizioni dell’arte, non l’arte nella forma della vita. L’abito greco era il più bello che il mondo abbia mai visto, e quello inglese del secolo scorso uno dei più mostruosi; tuttavia un dramma di Sheridan non può usare dei costumi come li userebbe una tragedia di Sofocle. Poiché, come afferma Polonio nel suo eccellente discorso, che sono lieto di poter ringraziare, una delle prime qualità dell’abito è la sua espressione. E lo stile affettato dei vestiti del secolo scorso era la caratteristica naturale di una società di maniere affettate e di una conversazione affettata – una caratteristica che il drammaturgo realista valuterà tantissimo fino al minimo dettaglio nella precisione, e per la quale ricaverà i materiali solo dall’archeologia.

   Ma non basta che un abito sia accurato; deve essere anche adatto alla statura e all’aspetto dell’attore, alla condizione presunta, come alla necessaria azione del dramma. Nel Come vi piace di Mr. Hare al St. James’s Theatre, per esempio, l’intero tema del lamento di Orlando per esser stato allevato come un contadino, e non come un gentiluomo, fu rovinato dalla magnificenza del suo abito, e la splendida veste indossata dal Duca esiliato e dai suoi amici era del tutto fuori luogo. La spiegazione di Mr. Lewis Wingfield che le leggi sontuose del periodo richiedevano che fossero così, è, temo, appena sufficiente. È molto improbabile che fuorilegge, nascosti in una foresta e dediti alla caccia, prestino tanta attenzione alla ritualità dell’abbigliamento. Probabilmente erano vestiti come gli uomini di Robin Hood, ai quali, infatti, erano paragonati nel corso del dramma. E che il loro abito non fosse quello di ricchi nobili lo si evince dalle parole di Orlando quando si imbatte con loro. Li scambia per predoni, e si stupisce per le loro risposte cortesi e gentili. Invece il Come vi piace di Lady Archibald Campbell a Coombe Wood, sotto la direzione di Mr. E. W. Godwin, fu un allestimento molto più artistico. Almeno così m’è parso. Il Duca e i suoi compagni erano vestiti con tuniche di tela, giacche di cuoio, stivaloni e guanti lunghi, e indossavano cappelli e cappucci con la tesa all’insù. E dato che recitavano in una vera foresta, trovavano, sono certo, i loro abiti estremamente comodi. A ogni personaggio del dramma fu dato un vestito perfettamente appropriato, e il marrone e il verde dei loro costumi si sposavano squisitamente con le felci fra le quali si aggiravano, con gli alberi sotto cui si stendevano, e con l’incantevole paesaggio inglese che circonda gli attori pastorali. La perfetta naturalezza della scena era dovuta all’assoluta precisione e accuratezza di tutto ciò che indossavano. Né l’archeologia poteva esser messa a più dura prova, o uscirne in modo più trionfante. L’intero allestimento ci ha mostrato una volta per tutte che un abito non corretto archeologicamente, e inadeguato artisticamente, appare sempre irreale, innaturale e teatrale, nel senso di artificiale.

   E, ancora, non basta che i costumi siano accurati, appropriati e dai bei colori; deve esserci anche la bellezza del colore in tutta la scena, e se il fondale è dipinto da un artista, e le figure in primo piano sono disegnate da un altro, c’è il pericolo di una mancanza d’armonia scenografica. Perché in ogni scena lo schema cromatico dovrebbe essere stabilito in modo assoluto come per la decorazione di una stanza, e i tessuti che si propone di usare dovrebbero essere mischiati e rimischiati in ogni combinazione possibile, e ciò che è discordante va rimosso. Riguardo i particolari tipi di colore, spesso la scena è troppo sgargiante, in parte per l’eccessivo uso di rossi accesi, violenti, e in parte per i costumi che sembrano nuovi. Lo squallore, che nella vita moderna è solo la tendenza al tono delle classi inferiori, ha il suo valore artistico, e i colori moderni sono spesso migliori se un po’ sbiaditi. Anche il blu è troppo spesso usato: non è soltanto un colore pericoloso da indossare alla luce del gas, ma è anche davvero difficile trovare in Inghilterra un bel blu. Il fine blu cinese, che noi tutti ammiriamo tanto, ha bisogno di due anni per essere realizzato, e il pubblico inglese non intende aspettare così a lungo per un colore. Il blu pavone, naturalmente, è stato impiegato a teatro con ottimi risultati, specie al Lyceum; ma tutti i tentativi che ho visto di ottenere un bel blu acceso, o un bel blu scuro, sono stati dei fallimenti. Il valore del nero è appena apprezzato; effettivamente è stato usato da Mr. Irving nell’Amleto come la nota centrale di una composizione, ma come tono neutro la sua importanza non è stata riconosciuta. E questo è curioso, considerato il colore generale degli abiti di un secolo in cui, come dice Baudelaire, ‘Nous celebrons tous quelque enterrement’ [6]. Gli storici del futuro probabilmente caratterizzeranno quest’epoca come quella in cui la bellezza del nero è stata compresa; ma, per ciò che concerne gli allestimenti teatrali o la decorazione delle case, credo poco che sia così. Il suo valore decorativo è, naturalmente, lo stesso del bianco o dell’oro; può separare e armonizzare i colori. Nei drammi moderni la redingote nera dell’eroe diventa importante in sé, e si dovrebbe accostarle un fondale adatto. Ma succede raramente. Di certo l’unico fondale giusto per uno spettacolo in abiti moderni che abbia mai visto è stato il grigio scuro e crema del primo atto di Princess George di Mrs. Langtry. Di solito, l’eroe è soffocato da bric-a-brac e palme, perso nell’abisso dorato dei mobili Louis Quatorze, o ridotto alla statura di un nano in mezzo agli intarsi; mentre il fondale dovrebbe esser sempre un fondale, e il colore subordinato all’effetto. Questo, naturalmente, si può realizzare solo se c’è un’unica mente a dirigere l’intero allestimento. Diversi sono i fattori nell’arte, ma l’essenza dell’effetto artistico è l’unità. Monarchia, Anarchia, e Repubblica possono contendersi il governo delle nazioni; ma a teatro il potere dovrebbe essere gestito da un despota colto. Vi può essere la divisione delle mansioni, ma non quella della mente. Chiunque capisca il costume di un’epoca comprende anche la necessità della sua architettura e delle sue condizioni ambientali, ed è facile accorgersi dalle sedie di un secolo se fu un secolo di crinoline o no. Infatti, in arte non esistono specialisti, e una produzione davvero artistica dovrebbe portare l’impronta di un maestro, e di uno solo, che non soltanto disegni e ordini tutto, ma che abbia il completo controllo sul modo con cui va indossato ogni abito.

   Mademoiselle Mars, nella prima dell’Hernani, si rifiutò categoricamente di chiamare il suo amante ‘mon lion!’ finché non le fosse permesso d’indossare un piccolo toque allora molto in voga sui Boulevard; e oggi molte giovani interpreti della nostra scena insistono a portare rigide gonnelle inamidate sotto gli abiti greci, distruggendo tutta la delicatezza del lino e delle pieghe; ma queste licenze perverse non dovrebbero essere concesse. E andrebbero fatte molte più prove in costume di adesso. Attori come Mr. Forbes-Robertson, Mr. Conway, Mr. George Alexander, e altri, per non citare artisti più vecchi, sanno muoversi con agio ed eleganza in abiti di qualsiasi epoca; ma non sono pochi quelli che sembrano terribilmente in imbarazzo con le mani se non hanno tasche dove infilarle, e che portano sempre i loro abiti come fossero costumi. I costumi, naturalmente, riguardano il designer; ma gli abiti dovrebbero riguardare chi li indossa. E la si dovrebbe piantare con l’idea, molto prevalente a teatro, che i greci e i romani andassero all’aria aperta a capo scoperto – un errore in cui non incappavano i registi elisabettiani, che dotavano di cappelli oltre che di toghe i loro senatori romani.

   Servirebbe fare più prove in costume per spiegare agli attori che esiste una forma del gesto e del movimento che non è solo consona allo stile degli abiti, ma che da questo stile è fortemente condizionata. L’uso stravagante delle braccia nel XVIII secolo, per esempio, fu il risultato necessario delle ampie crinoline, e la solenne dignità di Burleigh era dovuta tanto alla sua gorgiera quanto alla sua ragione. Inoltre, finché un attore non è a suo agio nel suo abito, non è a suo agio nella sua parte.

   Del valore di un bel costume nella creazione del temperamento artistico presso il pubblico, e della realizzazione di quel gusto della bellezza in sé, senza la quale i grandi capolavori dell’arte non sarebbero compresi, non parlerò qui; sebbene valga la pena di sottolineare come Shakespeare apprezzasse questo lato della questione nell’allestimento delle sue tragedie, facendo sempre uso della luce artificiale, e in teatri avvolti dal nero; ma ciò che ho cercato di rilevare è che l’archeologia non è un metodo pedante, ma un metodo di illusione artistica, e che il costume è un tramite per mostrare il personaggio senza descrizioni, e per produrre situazioni drammatiche ed effetti drammatici. E credo sia un peccato che molti critici si siano messi ad attaccare uno dei più importanti movimenti del teatro moderno già prima che quel movimento abbia raggiunto tutta la sua perfezione. Tuttavia, sono certo che questo avverrà così come sono certo che in futuro sarà richiesta ai nostri critici teatrali una maggiore competenza che non sia il ricordo di Macready o l’aver visto Benjamin Webster; e non c’è dubbio che a loro sarà richiesto di coltivare il senso della bellezza. Pour être plus difficile, la tâche n’en est que plus glorieuse. [7] E se non l’incoraggeranno, per lo meno non dovranno opporsi a un movimento che Shakespeare e tutti i drammaturghi avrebbero approvato fino in fondo, perché fa dell’illusione della verità il suo metodo, e dell’illusione della bellezza il suo risultato. Non che io concordi con tutto ciò che ho affermato in questo saggio. Vi sono molti aspetti che non mi vedono affatto d’accordo. Il saggio rappresenta semplicemente un punto di partenza artistico, e nella critica estetica l’atteggiamento è tutto. Perché in arte non esiste una verità universale. Una verità in arte è quella di cui anche il contrario è vero. Così come è solo nella critica d’arte, e grazie a essa, che possiamo apprendere la teoria platonica delle idee, così è solo nella critica d’arte, e grazie a essa, che possiamo realizzare il sistema hegeliano dei contrari. Le verità della metafisica sono le verità delle maschere.


[1] Almanacco nobiliare inglese.

[2] William Shakespeare, Enrico V, Prologo, traduzione italiana di Tommaso Pisanti in William Shakespeare, Tutto il teatro, Newton Compton, Roma 1990.

[3] Tr. ‘I piccoli dettagli della storia e della vita domestica (dice Hugo) devono essere scrupolosamente studiati e riprodotti dal poeta, ma unicamente come mezzi per accrescere la realtà dell’insieme, e per far penetrare fino agli angoli più oscuri dell’opera questa vita generale e possente in mezzo alla quale i personaggi sono più veri, e le catastrofi, di conseguenza, più pregnanti. Tutto dev’essere subordinato a tal scopo. L’uomo in primo piano, il resto in fondo’.

[4] Tr. ‘Mi scuso profondamente con gli spettatori intelligenti. Speriamo che un giorno un signore veneziano possa semplicemente e senza pericolo esporre tutto il suo blasone. Sarà un progresso’.

[5] William Shakespeare, Riccardo II, Atto III, Scena III, traduzione italiana di Mario Luzi in William Shakespeare, Tutto il teatro, Newton Compton, Roma 1990.

[6] Tr. ‘Tutti noi celebriamo un funerale’.

[7] Tr. Dal momento che è più difficile, il compito sarà più glorioso.



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