OSCAR WILDE
PENNA, MATITA E VELENO
UNO STUDIO IN VERDE
Titolo originale: PEN, PENCIL AND POISON – A STUDY IN GREEN
Traduzione di Marco Vignolo Gargini
Lo si può immaginare là tra i suoi libri, i suoi calchi e le sue incisioni, un vero virtuoso, un fine conoscitore, a rimirare la sua bella collezione di Marco Antonio, o il suo Liber Studiorum di Turner, di cui era un ammiratore appassionato, o a esaminare con una lente d’ingrandimento alcune delle sue antiche gemme e cammei, ‘la testa di Alessandro su di un onice a due strati’, o ‘quel superbo altissimo relievo [1] in corniola, Giove Egioco’. Egli fu sempre un grande cultore delle incisioni, e dà alcuni suggerimenti assai utili riguardo i migliori criteri per metter su una collezione. Di fatti, pur apprezzando completamente l’arte moderna, non perse mai di vista l’importanza delle riproduzioni dei grandi capolavori del passato, e tutto ciò che egli afferma sul valore dei calchi in gesso è davvero ammirevole.
Come critico d’arte si dedicò principalmente alle complesse impressioni provocate da un’opera d’arte, e di sicuro il primo passo nella critica estetica è quello di avvedersi delle proprie impressioni. Tenne in poco conto le discussioni astratte sulla natura della Bellezza, e il metodo storico, che subito dopo avrebbe prodotto frutti così abbondanti, non apparteneva alla sua epoca, però non ignorò mai la grande verità secondo cui il primo richiamo dell’Arte non è rivolto all’intelletto o alle emozioni, ma esclusivamente al temperamento artistico, e più di una volta egli fa notare che questo temperamento, questo ‘gusto’, come lo definisce, qualora sia inconsciamente guidato e reso perfetto da un frequente contatto con le migliori opere, alla fine diventa una forma di retto giudizio. Ovviamente vi sono delle mode nell’arte proprio come ve ne sono nell’abbigliamento, e forse nessuno di noi può mai veramente liberarsi dall’influenza dei costumi e dall’influenza della novità. Lui di certo non se ne liberò, e d’altronde ammette apertamente come sia arduo formarsi un giudizio imparziale sulle opere contemporanee. Nondimeno, nel complesso, il suo gusto fu buono e equilibrato. Ammirò Turner e Constable in un periodo in cui non erano così apprezzati come lo sono adesso, e si accorse che per la più alta realizzazione nell’arte paesaggistica occorre più che ‘una mera industriosità e una accurata trascrizione’. Della Scena di brughiera presso Norwich di Crome ne mette in risalto la capacità di mostrare ‘quanto una sottile osservazione degli elementi, nei loro selvatici umori, agisce su di una pianura per niente degna di interesse’, e del tipo di rappresentazione paesaggistica popolare della sua epoca dice che è ‘semplicemente un’enumerazione di colline e piccole valli, tronchi di alberi, arbusti, acque, prati, cottage e case; poco più di una rilevazione topografica, una specie di pittorea mappatura; nella quale arcobaleni, rovesci, nebbie, aloni, ampi raggi di luce sprigionanti attraverso squarci di nubi, tempeste, chiarori stellari, tutti i materiali più apprezzati del vero pittore, non esistono’. Egli aveva un profondo disprezzo per ciò che in arte è ovvio o comune, e mentre era estasiato nell’intrattenere Wilkie a cena, si curava poco dei quadri di Sir David come dei poemi di Mr. Crabbe. Non provava alcuna simpatia per le tendenze imitative e realistiche del suo tempo, e con franchezza ci dice che la sua grande ammirazione per Füssli era dovuta in larga parte al fatto che il piccolo svizzero non considerava necessario che un artista dovesse dipingere solo ciò che vedeva. Le qualità che ricercava in un quadro erano la composizione, la bellezza e la dignità della linea, la ricchezza del colore, e la facoltà immaginativa. D’altro canto, non era un dottrinario. ‘Io sostengo che nessuna opera d’arte possa essere vagliata diversamente dalle leggi dedotte da essa stessa: la questione è se essa sia o no conforme a se stessa’. Questo è uno dei suoi eccellenti aforismi. E nel recensire pittori così diversi come Landseer e Martin, Stothard e Etty, egli rivela che, per usare una frase oggi tradizionale, sta tentando ‘di vedere l’oggetto quale esso è realmente in sé.
Tuttavia, come ho rilevato precedentemente, egli non si sente del tutto a proprio agio nelle sue critiche delle opere contemporanee. ‘Il presente,’ afferma, ‘rappresenta per me una gradevole confusione come l’Ariosto a una prima attenta lettura… Le cose moderne mi abbagliano. Io le devo osservare con il telescopio del Tempo. Elia [2] si lamenta che per lui il merito di una poesia manoscritta è incerto; “la stampa”, come dice eccellentemente, “lo stabilizza”. Cinquant’anni di tonalità ottengono lo stesso effetto in un dipinto’. È più felice quando scrive di Watteau e di Lancret, di Rubens e Giorgione, di Rembrandt, Correggio, e Michelangelo; ancora più felice quando scrive di cose greche. Il gotico lo impressionò molto poco, ma l’arte classica e l’arte del Rinascimento gli furono sempre care. Seppe vedere ciò che la nostra scuola inglese poteva acquisire dallo studio dei modelli greci, e non si stanca mai di far notare al giovane studente le potenzialità artistiche che giacciono sopite nei marmi ellenici e nei metodi di lavoro ellenici. Nei suoi giudizi sui grandi maestri italiani, afferma De Quincey, ‘si evidenziava un accento di sincerità e di nativa sensibilità, come in uno che parlasse in prima persona, e non da mero copista di libri’. La lode più grande che possiamo rivolgergli è che egli cercò di far rivivere lo stile come una tradizione cosciente. Ma si accorse che né la totalità delle conferenze sull’arte o dei congressi sull’arte, né i ‘progetti per il progresso delle belle arti’, produrranno mai questo risultato. La gente, dice molto saggiamente, e nel vero spirito di Toynbee Hall, deve avere sempre ‘costantemente davanti ai propri occhi i migliori modelli’.
[1] In italiano nel testo
[2] Pseudonimo usato da Charles Lamb, critico e amico di Wainewright, nei suoi saggi apparsi nel «London Magazin» tra il 1820 e il 1822.