P.J. Harvey- Dear darkenss
In metro si va a giornate. L’altro giorno – dimentica Battisti, lui era un surrealista, sapeva sorvolare, io meschina, piuttosto terra terra, sto schiacciata. Certe giornate, certo. E altre no. Ma in quelle, la gente mi comprime contro il vetro. Fa caldo e poi fa freddo, alla mercé del condizionatore, siamo io e la gente, la gente sempre intorno, che si adegua, e resta, molesta come può. Pure un bambino, quanto avrà? Ricorda il mio. La mamma dice Non ti alzare, e guarda di sbieco me, che invece mi ci sarei seduta eccome, lì. Sono stremata ma certo non insisto, per rispetto. E il bimbetto è in piedi, e ancora riseduto e poi di nuovo in piedi. Senti la mamma, per non lasciar sguarnito il posto, quello accanto proprio alla mia bici, si sposta e prende in braccio il pupo. Stà fermo qui, gli fa, lo dice ben sapendo di fare dispetto a me. Mi sento male. Svengo? Una, due volte, tre. Forse so farlo, resistere, devo guardare in alto, ricordarmelo. Di respirare. A volte. Torno in controllo, ma il corpo non lo sento più. Come di notte, come quella passata, che il sogno era mio figlio. Che mi chiedeva aiuto a occhi sgranati e bocca spalancata. Senza nessuno intorno, ficcavo un dito in gola: asciutta, non c’era più saliva. Sveglia! Sveglia di scatto, lo scopro proprio accanto. Dorme sereno. Lo guardo con una pena tutta mia. Con compassione. Verso di me. Lo guardo. Sere e sere che geme, dice che teme. Cosa? La fine del mondo, nientemeno. Gli sorrido: Ma è così lontana! E la vecchiaia allora? Teme la mia come la sua, di crescita. La verità è feroce. Però lo prendo in giro, lo soffoco – di baci. Al buio non fanno molto effetto, e lui ha paura ancora. Ha paura, ha paura, ha paura, ha paura, ha paura. Ho paura mamma. Ora soffoco io, ma resisto, lo so fare, l’ho già sperimentato. Ora ridiamo, insisto, prendo tempo così, e singhiozzando insieme, insieme scivoliamo via nel sonno.
Mi sveglio tardi, è quasi mezzanotte. Non c’è più niente attorno. Non c’è nessuno. Neppure il sonno. Solo una luce, piccola, accesa.
Per ammaliare Morfeo mi sono procurata Il coltivatore del Maryland, due tomi di John Barth, traduzione di Luciano Bianciardi. 513 pagine il primo, 513 il secondo. Edizioni Rizzoli, 1960. Ultima ristampa del 1968. Devo riportarli in biblioteca il 20 luglio.
O-oh, mi sa che non dormirò lo stesso.