A scanso di equivoci lo dico subito: non era nei miei piani iniziare la nuova stagione scrivendo un articolo di cinema. Nella mia testa (e nelle mie bozze) c’era già il post introduttivo di un progettino al quale io e la mia dolce metà stiamo lavorando. Chi mi segue su Google Plus probabilmente avrà già notato nelle scorse settimane una mezza anteprima, tutt’altro che esplicativa: a loro e a tutti gli altri chiedo quindi ancora qualche giorno di pazienza, dopodiché scopriremo le prime carte della “nuova stagione”.
Non intendevo parlare di cinema, stavo dicendo, fino a quando la collega blogger Arwen Lynch non mi ha chiesto, qualche giorno fa, di partecipare con un post alla sua iniziativa di compleanno (quello del blog, il settimo). Un’iniziativa che non pretende di scuotere le coscienze del mondo, penalizzata qual è dalle dimensioni trascurabili di un pugno di blog, ma che cerca in qualche modo di supportare i diritti civili della comunità omosessuale. A prescindere dall’opinione di ciascuno su questo argomento specifico, ritengo sia incontestabile che, laddove esista un qualsiasi tipo di discriminazione, occorra prontamente intervenire a smorzarne gli effetti. Se oggi infatti è il nostro vicino di casa a venire discriminato, domani potremmo essere noi a essere etichettati e giudicati per una qualsiasi nostra diversità. La storia insegna: nessuno di noi può definirsi al riparo dalle opinioni altrui.
Oggi quindi su questo e altri blog si parla di cinema a tematica LGBT. C’è chi ha scelto titoli classici e chi, come me, ha cercato qualcosa di un attimino più particolare, nella fattispecie un “Gay Zombie Movie” che, sebbene detto così possa farvi pensare a una boiata, è invece a suo modo una piccola opera d’arte, quantomeno per chi scrive.
Il regista Bruce LaBruce è un nome tra più noti nel circuito del cinema gay-porno a basso costo, ma è anche uno dei pochi che, sebbene la sua estrazione non lo lasci supporre, sia riuscito a ottenere una première nientemeno che al Sundance Film Festival (2008) e a vedere le sue opere proiettate in rassegne di spessore quali il BIFF di Berlino, il festival di Locarno e il TIFF di Toronto.
Nella scena inziale Otto (ri)sorge da una tomba, un’immagine classica che ha trasceso la settima arte e che, dal giorno in cui George Romero girò "La notte dei morti viventi" (1968), è entrata a far parte della cultura popolare giocando con una delle paure più radicate nel genere umano: quella della morte. Otto non ricorda nulla del suo passato e comincia a vagare per le strade senza meta, consapevole solo di aver bisogno di nutrirsi pur conservando un innato tabù nei confronti della carne umana, probabile reminiscenza di una vita da vegetariano.
Nel suo vagare Otto giunge a Berlino e si imbatte in un volantino che annuncia l’apertura delle audizioni per un film di zombie, “Up with Dead People”. Recatosi al provino, Otto incontra la regista underground Medea Yarn (Katharina Klewinghaus), una goth-girl lesbica e amante dei cimiteri in procinto di girare un’opera di denuncia politica porno-zombi; la donna rimane folgorata dalla “naturale predisposizione” di Otto per il ruolo di protagonista e, senza pensarci due volte, lo scrittura immediatamente.
Il lungometraggio è caratterizzato da un uso alternato del bianco e nero e del colore, ma i toni sono sempre smorzati, come a sottolineare la desolazione della metropoli e di coloro che la abitano. I personaggi di contorno sono qualcosa di incredibile: la troupe di Medea è composta dal fratello Adolf e dalla sua amante lesbica Hella (Susanne Sachße), una bellezza d’altri tempi presentata sempre in un bianco e nero sgranato come un personaggio del cinema muto (nei dialoghi, le battute riservate a Hella sono addirittura sostituite da intertitoli, quelli che per capirci erano le tipiche didascalie del cinema delle origini). Ci sono poi i compagni di set di Otto, dei veri gay capitanati da Fritz Fritze che nei minuti finali del film di Medea saranno coinvolti in un'allegra orgia di gruppo.
Fritz, il nostro antieroe, torna a casa dopo una lunga giornata di lavori forzati nelle miniere della moda. La venuta di una nuova ondata di zombie gay aveva reso il mondo ancora più paranoico rispetto agli omosessuali, soprannominati ora il "pericolo viola". Rientrando a casa, Fritz scopre sul pavimento della cucina il suo compagno Maximilian, che s'è sparato in testa. Non poteva più sopportare le persecuzioni e la paranoia. Ma il proiettile nel suo cranio non impedirà a Maximilian di rianimarsi. Dopo aver reclutato Fritz, suo amante, il duo necromantico prepara un'insurrezione contro la civiltà degli umani. Vengono fermati da una banda di teppisti armati di mazze da baseball. Maximilian si becca un'altra palla sulla testa e stavolta, viene soppresso per sempre. Fritz riesce a scappare e, ispirato dal martirio di Maximilian, inizia la sua ascensione verso l'infamia in quanto capo della guerriglia degli zombie omosessuali, il Che Guevara gay dei morti viventi. Agli inizi, recluta i suoi partigiani uno per uno, attirando degli omosessuali nei vicoli bui e aggredendoli per renderli immortali. Ben presto reclutò abbastanza membri per formare la sua banda, Un piccolo esercito di zombie gay i cui membri uccidevano e divoravano parzialmente giovani uomini. Ma non necessariamente in quest'ordine.
In un mondo che si auto-fagocita, producendo più spazzatura di quanta ne riesca a smaltire, con un divertente gioco di parole le macellerie di LaBruce, metzgerei, divengono fleischerei; un'ironia sottile ma feroce che, concettualmente, mi ha ricordato (con tutte le differenze del caso, sia chiaro) certi lavori di Švankmajer.
La carne e il sangue di cui ci cibiamo, per un piacere più sessuale che alimentare, nelle immagini potenti di LaBruce cominciano a uscirci dagli occhi e a disgustarci. Ci chiediamo infine se quello che vediamo sia davvero ciò di cui necessitiamo, ciò che desideriamo, soprattutto in virtù del fatto che il sottoprodotto del nostro consumismo sembra in fondo creare più bisogni di quanti non ne soddisfi.
Cos’è in fondo il desiderio? Il bisogno di qualcosa che non possediamo? Oppure solamente un bisogno indotto dalla società che crea per noi i nostri bisogni, le nostre necessità e di conseguenza i nostri desideri? Ecco che la critica di LaBruce si estende alla società nella sua interezza, quella società che soffoca la natura, sfrutta gli animali, e crea montagne di rifiuti destinati a raggiungere quell'immortalità che l'uomo può solo sognare, una terra da incubo che un giorno i nostri figli erediteranno. Possiamo dunque accusare Otto di essere un diverso solo perché non desidera nulla di tutto questo?
Ma c'è una domanda ancora più pressante da farsi. Solo con l'alienazione o con la morte (e nella morte) possiamo aspirare a liberarci dalle catene del conformismo e ad essere finalmente e veramente noi stessi? Io dico che con un po’ di impegno possiamo farlo già adesso, prendendo spunto da Otto che, lasciatosi alle spalle le atmosfere cupe e opprimenti di Berlino, ritrova le geometrie ampie e ariose della campagna. Il simbolo di una scelta diversa e controcorrente nella quale ritrovare (o inseguire) se stesso e, soprattutto, un nuovo modo di vivere.