Ottocento aureole per gli Eroi di Otranto

Creato il 12 maggio 2013 da Cultura Salentina

12 maggio 2013 di Francesco Danieli

La città di Otranto. Antica incisione.

Il medioevo volge al tramonto quando i centri costieri di Terra d’Otranto vivono quotidianamente con l’angoscia che dal mare possa giungere qualcosa di nefasto, mentre anche nell’immediato entroterra ci si prepara al peggio. Da un certo tempo, infatti, strane manovre disturbano l’ormai secolare quiete del Mediterraneo; voci discordanti, raccolte in Oriente dai mercanti autoctoni, insinuano come l’antico nemico musulmano – in letargo da lunghi anni – stia riaffilando le scimitarre. È la torrida estate del 1480 quando la flotta turca, al comando del crudele Gedik Ahmed Pasha, fa capolino nelle acque idruntine.

La compongono novanta galee, quaranta galeotte e altre navi di piccola taglia, cariche di circa diciottomila uomini. Il sultano Maometto II, convinto della strategicità geografica di Otranto, ha ordinato alle sue soldataglie di occupare la città e che a partire da essa si proceda alla conquista del regno di Napoli. Per quindici lunghi giorni, dal 28 luglio all’11 agosto, la rocca è cinta d’assedio. Il re Ferrante d’Aragona (1458-1494), come il resto dei sovrani regnanti in suolo italico, non muove un dito per evitare la catastrofe ma attende ignavo il volgere degli eventi. Si vanno delineando in modo sempre più drammatico la frammentazione politica della Penisola e le manovre basse di chi, come Venezia, pensa solo ai propri tornaconti economici.

Ahmed tenta la via dei negoziati diretti per ottenere la resa incondizionata della città, ma i fieri otrantini sono pronti a difendere a spada tratta la loro libertà. Tale Ladislao De Marco, compiendo un gesto altamente simbolico, lascia cadere in mare le chiavi della città. È guerra aperta! Il Pascià raccoglie la pesante sfida e ribatte con varie raffiche di bombardamenti: pesanti palle in pietra viva, alcune delle quali oggi adornano il centro storico, vengono lanciate da possenti catapulte e in poco tempo sfaldano irrimediabilmente la cinta muraria. Create le brecce, i turchi trovano accesso in città e la mettono a ferro e fuoco. Chi oppone ulteriore resistenza è eliminato lì dove si trova, mentre gruppi di anziani, donne e bambini in preda al panico trovano asilo in cattedrale. Gli infedeli però, senza alcun riguardo per quel luogo santo, vi fanno irruzione anche a cavallo e massacrano l’arcivescovo Stefano Agricoli De Pendinellis (1451-1480) e i suoi preti. Donne e bambini sono tratti in schiavitù, per finire quali merce umana nei mercati d’Oriente. Ottocentotredici uomini in forze, di un’età compresa dai quindici anni in su, sono invece denudati e incatenati, suddivisi in gruppi di cinquanta e condotti a piedi sul colle della Minerva. È il 14 agosto. Ad attenderli sull’altura c’è lo spietato Ahmed Pasha. Un interprete, voce dello stratega ottomano, pone gli otrantini dinanzi a un bivio: abiurare la fede cristiana per abbracciare l’Islam e aver salva la vita, oppure essere giustiziati. Come riporta l’Historia di Giovanni Michele Lagetto, il cimatore di panni Antonio Pezzulla replica a nome di tutti i suoi concittadini: «Noi crediamo in Gesù Cristo, Figlio di Dio, e per Gesù Cristo siamo pronti a morire».

L’eccidio degli Ottocento. Antica incisione.

Il testimone oculare Pietro Colonna, detto il Galatino, aggiunge come «si sentì un mormorio tra di loro, per lo spazio di circa un’ora, mentre si esortavano a vicenda e dicevano: moriamo per Cristo, moriamo volentieri per non rinnegare la fede in lui». Trascorso il tempo prefissato per l’ultimatum, il Pascià ordina ai suoi sgherri di procedere all’eccidio. La prima testa a cadere è proprio quella di Pezzulla, per questo nominato Primaldo; il suo corpo acefalo, non appena la scure è ritratta, si leva in piedi e resta ritto – nonostante i maomettani lo strattonino con brutalità – finché il capo dell’ultimo otrantino non sia stato reciso. È il prodigio metaforico di chi nella vita sa restare sempre diritto, non facendosi schiavo di nessuno. Stupefatto e scosso dalla serena offerta di tante centinaia di vite, il turco Berlabei proclama a gran voce la sua fede in Cristo Gesù. Riceverà il suo battesimo di sangue mediante l’orrendo supplizio del palo. Le spoglie incorrotte dei martiri restano insepolte per tredici lunghi mesi. L’8 settembre 1481 giunge in città il duca di Calabria Alfonso, primogenito di Ferrante d’Aragona e futuro re di Napoli (1494-1495). Sfruttando il suo momento di gloria, il pupillo monta ad arte il mito della riconquista; in realtà giunge con le sue truppe in una città fantasma, abbandonata dai turchi ormai da diversi giorni per improvvise urgenze da affrontare oltremare. Alfonso fa ricomporre i corpi dei martiri e ordina che siano momentaneamente riposti nel modo più onorevole nella cappella di Sant’Eligio, alle pendici del colle dell’eccidio. Il 13 ottobre dello stesso anno i resti mortali sono traslati nella cripta della cattedrale, in attesa che entro il 1482 sia ultimata un’apposita cappella nello stesso tempio. Nel 1485 re Ferrante ottiene duecentoquaranta corpi, custoditi e venerati nella chiesa partenopea di Santa Caterina a Formiello. Nel 1711 i corpi rimasti a Otranto saranno riposti nei sette grandi armadi a muro, nel sacello in fondo alla navata destra, dove ancora oggi si venerano.

Nel 1539 è aperto il lungo e complesso processo canonico; culminerà il 14 dicembre 1771 con la beatificazione degli Ottocento da parte di papa Clemente XIV (1769-1774). Primaldo e compagni martiri possono essere scelti quali protettori della città di Otranto e dell’arcidiocesi. Dopo più di due secoli di stallo, il cammino verso la canonizzazione si conclude in questi giorni. Confermata di recente l’antica positio super martyrio, il 6 luglio 2007 papa Benedetto XVI ha riconosciuto ufficialmente negli eroi della Minerva dei martiri uccisi in odio alla fede. Il suo successore Francesco, il 12 maggio 2013 proclama solennemente la loro santità. Fede o non fede, la storia è storia. Ed ai Martiri di Otranto va rivolta la gratitudine dell’Occidente europeo, che senza la loro resistenza e il loro sacrificio oggi avrebbe tutta un’altra conformazione.

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