Ritorno di classe per “Out of Sight”. Per la prima uscita del 2016, la rubrica sull’ “uomo in più” ha un ospite designato, e non potrebbe essere altrimenti: Leo Messi, la “Pulce”.
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— TheSPORTbible (@TSBible) 12 Gennaio 2016
Fresco di Pallone d’Oro (il quinto in carriera, dopo l’ultimo nel 2012, record assoluto), il trofeo individuale più ambito, Messi ha coronato un 2015 straordinario, in cui è riuscito a trascinare la squadra alla conquista del secondo triplete della storia catalana (dopo quello del 2009, sempre con Messi protagonista), e a regalare alla bacheca del club ben 5 trofei in un anno solare: Liga, Copa del Rey, Champions League, Mondiale per club e Supercoppa UEFA. Due le uniche macchie in un’annata apparentemente irripetibile: la defajance in Supercoppa di Spagna contro il Bilbao, rimediata per l’azzardatissimo turn over di Luís Enrique nel match d’andata (conclusosi con un clamoroso e irrecuperabile 4-0), e l’infortunio di inizio stagione che ha tenuto la Pulce lontano dai campi per ben due mesi. A ragion veduta, lo stop di Messi è stato provvidenziale per la squadra: Neymar, l’erede designato di Ronaldinho, il top player destinato a incidere sul futuro di questo club, ha imparato ad adattarsi al ruolo di trascinatore, diventando punto di riferimento di una squadra orfana del fulcro del proprio gioco. Nuovamente in campo da poco più di un mese, Leo è già tornato a essere una macchina da goal: all’esordio mette a segno una doppietta alla Roma nel match del catastrofico 6-1, per poi racimolare in Liga un bottino di 9 goal e 4 assist sulle 13 presenze totali. Sabato, contro il Granada, è andato a segno con una tripletta, consentendo così ai blaugrana di restare in vetta, a +1 sui Colchoneros di Simeone. Il Camp Nou ha ritrovato il proprio Maestro.
Lionel Andrés Messi Cutticini, classe 1987, nasce a Rosario, nella provincia di Santa Fe, in Argentina. Proviene da una famiglia di piccoli borghesi, il padre Jorge è un operaio, la mamma Celia un’operatrice domestica, Leo è il secondo di quattro figli. L’amore e lo spirito di sacrificio della propria famiglia sono da sempre il suo punto di forza: all’età di otto anni il piccolo Lionel smette di crescere per una grave carenza ormonale , e gli viene diagnosticata una lieve forma di nanismo. Nell’Argentina di quegli anni una tale forma di invalidità avrebbe comportato una vita di stenti, l’impossibilità di avere un lavoro e di condurre una vita dignitosa. Fortunatamente, Messi pur giovanissimo, era già stato ammirato per le straordinarie magie con palla al piede nel Newell’s Old Boy, la squadra locale dei Leprosos, così chiamata perché divenuta famosa negli anni venti per aver organizzato partite di beneficienza a favore di un ospedale che curava i lebbrosi. Fu la sua salvezza. Fu il River Plate a corteggiarlo per primo, timidamente, per poi tirarsi indietro una volta venuto a conoscenza dell’onerosità della cura: la terapia intrapresa coraggiosamente da Messi costava l’equivalente di 1000 euro al mese, e per un club dell’Argentina sull’orlo del tracollo finanziario sembrava eccessivo per un ragazzino di 13 anni. Fu il Barcellona l’unico club così coraggioso da prendere Messi sotto la propria ala. Ai tempi del primo provino, Leo non superava il metro e quaranta, e si racconta che le turbolenze affrontate durante il volo per la Spagna avessero provocato una fortissima nausea al ragazzo, che si presentò davanti a Rexach, l’assistente di Cryuff, pallido e tremolante. La totale inadeguatezza fisica e l’aria un po’ assente, da antisociale con scarsissime capacità dialettiche (il che può far propendere per la veridicità della tesi secondo cui la Pulga soffrirebbe di una lieve sindrome di Asperger) sono state soppiantate da un’abilità di dribbling assolutamente fuori dal comune: come ricorda Fàbregas, Rexach si precipitò a fargli firmare un contratto da ben 100 milioni di pesetas su un fazzoletto. Era il febbraio del 2000: l’origine dell’egemonia dei blaugrana.
La famiglia si divise, il padre restò con Messi in Spagna mentre la madre tornò in Argentina per allevare gli altri tre figli. L’affetto del padre e il supporto del club lo trasformarono nel fuoriclasse che è oggi: il Barça finanziò la terapia, permettendogli di arrivare fino ai metro e settanta. Ma non solo: la società ne colse fin da subito il carattere schivo, introverso, la scarsissima propensione alla socializzazione, e gli costruì intorno una campana di vetro per proteggerlo da ogni pressione esterna. Messi è un ragazzino timido, silenzioso, privo di qualunque interesse che non sia prendere a calci un pallone. Legge poco, nel tempo libero gioca ai video game ma stufandosi quasi subito, non ama seguire altri campionati. “Cosa non mi piace del mio mestiere? Le interviste” avrebbe dichiarato molti anni dopo, dimostrando emblematicamente quanto Messi sia lontano dal fenomeno mediatico che gli è stato affibiato con l’aumentare del successo. Ad appena 17 anni, esordisce in Liga in prima squadra, ma è a maggio del 2005 che ebbe inizio l’epopea, contro l’Albacete (ultimo in classifica): Rjikaaard lo inserì al minuto 88′, e in meno di due minuti Messi mette a segno ben due pallonetti in rete (il primo annullato per fuorigioco). Il primo goal in Liga gli valse la maglia da titolare, aggregato al reparto d’attacco più forte che il Barcellona abbia mai visto: Ronaldinho e Eto’o, con Deco che faceva da centrocampista offensivo. La cavalcata trionfale si concluse con la vittoria in finale contro l’Arsenal, ma Messi fu relegato in panchina a causa di un infortunio rimediato nelle ultime settimane. Il suo rammarico era evidente e lui non fece nulla per nasconderlo, ma Dinho (che gli fece da mentore creando un sincero rapporto di amicizia) e Thiago Motta insistettero per coinvolgerlo nei festeggiamenti, consegnandogli la Coppa che lui non riusciva a sentire come sua: ad appena 18 anni era già campione d’Europa. Nei due anni successivi, i rapporti tra Rijkaard e lo spogliatoio si sfaldano, soprattutto a causa dei malumori di Eto’o. Messi, nel frattempo, matura e mostra al mondo di essere predestinato a diventare il giocatore simbolo dei blaugrana, (memorabile la tripletta nel Clásico del 2007), ma il Barcellona non decolla più.
Dopo un biennio parco di risultati, Laporta ha l’ardire di scommettere sull’ex capitano blaugrana nonché allenatore del Barcellona B, Josep “Pep” Guardiola, che lo ripagò per la fiducia forgiando il Barcellona più forte di tutti i tempi. Allontanati i due artefici del trionfo europeo del 2006, Deco e Ronaldinho (il primo fu ceduto al Chelsea, il secondo al Milan, ma era già in fase calante), Pep creò un nuovo sistema di gioco, basato sullo sfiancare gli avversari mantenendo il possesso nella parte alta della metà campo con passaggi veloci, corti e precisi, con pochi tocchi per giocatore, permettendo però di trovare varchi, grazie al movimento senza palla degli attaccanti: è l’origine del tiki-taka. E Messi, a 20 anni appena, è la colonna portante del sistema, insieme a Xavi e a Iniesta, che videro esaltate le proprie abilità in cabina di regia. La prima stagione di Guardiola è un capolavoro, coronata dallo storico sextete. I blaugrana prima si assicurano la Liga, schiantando l’unico rivale, il Real Madrid, con un sonoro 6-2, (la peggior sconfitta per le merengues dal 1930) per poi aggiudicarsi la settimana seguente la Copa del Rey, con un secco 4-1 sul Bilbao, grazie anche a un goal della Pulce. Anche in Champions, Messi è protagonista fondamentale: nella controversa semifinale di ritorno contro il Chelsea, a Stamford Bridge, serve a Iniesta l’assist perfetto per la rete che vale la finale di Roma. Finale che vedrà Messi mettere in cassaforte la vittoria finale, segnando di testa il 2-0 contro lo United campione in carica. A 21 anni la Pulga è il più giovane capocannoniere della Champions League, nonché il secondo miglior marcatore del club in Liga (21 goal), dietro a Eto’o (30). Quell’anno, Pep riuscirà ad aggiudicarsi anche Supercoppa di Spagna, Supercoppa europea e Mondiale per club, consacrandosi come primo (e unico per ora) allenatore in grado di vincere tutto già al primo anno sulla panchina dei catalani.
Votaciones de Ibra en el BdO: 2009: Messi 2010: Messi 2011: Messi 2012: Messi 2013: Messi 2014: Messi 2015: Messi pic.twitter.com/7CbIfFdCI4 — ⚽ FC Barcelona ⚽ (@Gol_FCBarcelona) 12 Gennaio 2016
Prima del definitivo salto di qualità del 2011 (anno della terza Champions in 6 stagioni), Leo vive un anno di malumore e di flessione (perdonate la blasfemia) a causa dell’ingombrante presenza dell’ex interista Zlatan Ibrahimovic, acquistato in uno scambio (deleterio) con Samuel Eto’o. La coesistenza tra le due antitesi più assolute della storia calcistica è difficile e di brevissima durata. Da un lato, Leo, l’eroe silenzioso, il timido, l’uomo minuto che gioca per la squadra contribuendo alla manovra con continui spostamenti; dall’altro Zlatan, l’antieroe, lo spaccone che si serve con una certa arroganza del proprio strapotere fisico per prendersi il pallone e schiantarlo in rete con una fucilata, senza guardare in faccia a nessuno, nemmeno i compagni. Il primo fuori dal campo è quasi noioso per la propria banalità, il secondo con una dichiarazione riesce a mancare di rispetto ad un’intera nazione (memorabile la più recente “questo paese di m…a non merita il PSG“). L’infortunio di Ibra a fine stagione favorisce la fluidità della squadra, Messi torna ad essere l’artefice principale della manovra grazie al 4-2-3-1 costruito ad hoc per facilitarlo, ma, dopo il leggendario poker personale rifilato all’Arsenal ai quarti di finale, in semifinale la Pulce e compagni impattano contro la magica Inter di Mourinho, trascinata proprio dall’ex compagno Eto’o. Con la cessione di Ibra al Milan, dopo una sola stagione, la società rimedia una clamorosa minusvalenze ma almeno per Messi torna il sereno. Schierato da falso 9, Leo impara a dettare i tempi di gioco, accentrando su di sé la marcatura a uomo delle difese avversarie, per poi spiazzarle con un tocco veloce e chirurgicamente preciso a favore del compagno lasciato inevitabilmente smarcato. La stagione si incentra sulla rivalità contro le merengues di Mourinho, e i blaugrana riescono a sbancare su tutti i fronti: dopo la “manita” al Camp Nou nel Clásico di fine novembre, il Barça distacca il Real chiudendo il campionato in testa con 96 punti. Il Clásico si ripete in semifinale di Champions League, e Messi scalza da solo il tecnico campione in carica con una doppietta all’andata, in un match infuocato per la generosa espulsione di Pepe e l’arcinoto “Porque?” dello Special One in conferenza stampa. Nuovamente in finale contro lo United, Messi è ancora una volta decisivo con la rete che rompe gli equilibri, dopo il pareggio di Rooney. La finale di Wembley, che come riconobbe Sir Ferguson consacrò “la squadra più forte della storia”, segnò la fine del ciclo vincente del tiki-taka.
Nelle stagioni successive, Messi si conferma inarrivabile come marcatore, stracciando record su record con cifre mostruose: 71 goal nella 2012 , 100 goal in due anni, un Pallone d’Oro (il terzo consecutivo, sempre nel 2012). Sono però anni tumultuosi: il tiki-taka è diventato prevedibile, le difese hanno abbandonato gli schemi di marcatura a uomo, preferendo restare più arretrate per poi attendere l’errore in fase di fraseggio e lanciare in contropiede i centrocampisti. Leo si trova a giocare più lontano dall’area di rigore, da regista offensivo, con gli attaccanti che faticosamente trovano spazio nelle difese avversarie: i suoi spunti diminuiscono, e spesso si ha la percezione che giochi sotto ritmo. La sconfitta in semifinale di Champions contro il (miracolato) Chelsea palesemente inferiore ma ultra difensivo di Di Matteo mette fine all’esperienza di Guardiola sulla panchina catalana, che a giugno del 2012 passa alla guida del Bayern Monaco. In panca si susseguono il compianto Tito Vilanova e Gerardo Martino, tornando nel 2013 al trionfo in Liga ma cadendo miseramente in semifinale di Champions per due anni di fila, contro Bayern Monaco e Atlético Madrid. Messi vomita in campo, sembra sfiancato, sottotono, oscurato da un Cristiano Ronaldo sempre più decisivo e capace di conquistare la “décima” con Ancelotti, oltre a ben due Palloni d’Oro. Ci vuole tutto il coraggio della società per invertire la rotta: Laporta mette a segno due colpi di mercato acquistando due top player (Neymar e Suárez) in soli due anni, rivoluzionando l’attacco per poi affidarlo a un altro ex allenatore del Barcellona B, Luís Enrique. Per la Pulga non è un arrivo indolore, soprattutto quando dopo il ritorno di Suárez dalla squalifica, il numero 10 si trova, per la prima volta dopo 9 anni da titolare fisso, in panchina. Il malumore cresce, e nonostante il filotto di vittorie (7 di fila), Laporta, pur di scongiurare l’ipotesi di un addio anticipato, è disposto a offrire a Messi la testa dell’ex romanista. Consapevole dell’imminenza dell’esonero, Enrique reinventa il sistema di gioco, accantona il tiki-taka (troppo dispendioso per un centrocampo di trentenni) e lascia convivere le tre punte nel 4-3-3 più offensivo che il Barcellona abbia mai avuto. Il tridente MSN mette a segno ben 81 goal nella sola Liga, 122 tra tutte le competizioni. E l’intraprendenza del tecnico paga: Luís Enrique si aggiudica il triplete al primo anno sulla panchina, eguagliando Guardiola, per poi aggiudicarsi il Mondiale per club. Messi torna alla ribalta dopo stagioni altalenanti. Da sottolineare, oltre a tutti i record (la vetta delle 77 reti in Champions League che lo consacrano come miglior marcatore della storia torneo, la quarta Champions vinta in 10 anni, il quinto Pallone d’Oro) le due reti destinate a diventare pietre miliari di questi sport. La prima, in finale di Copa del Rey contro il solito Bilbao, con una partenza da destra per poi accentrarsi saltando ben 4 avversari e concludere sul primo palo. La seconda, in semifinale di Champions contro il Bayern dell’ex mentore, con tanto di finta che mette a sedere Boateng e goal in pallonetto a Neuer, quell’anno terzo classificato nella corsa per il Pallone d’Oro.
A 28 anni Messi è acclamato come miglior giocatore del mondo. L’affetto e la protezione ricevute dal Barça e dalla propria famiglia lo hanno aiutato a crescere protetto, l’umiltà, la determinazione feroce e l’estrema purezza d’animo hanno fatto il resto. Come sottolineato dall’ex capitano Xavi nella toccante lettera di pochi giorni fa, i soldi e il successo non hanno fatto dimenticare alla Pulce l’importanza dei valori con cui è stato cresciuto. La totale onestà nei confronti dei compagni, la schiettezza, la disponibilità, lo ha reso leader anche fuori dallo spogliatoio, senza che lui avesse mai aspirato ad esserlo. Leo “inganna solo difensori e portiere”, è leale, sembra che qualunque malizia a cui tende l’essere umano sia per lui totalmente innaturale. Queste qualità l’hanno reso la bandiera del club, il giocatore simbolo: senza Messi la potenza mediatica del Barcellona si sgretolerebbe. Ora, è l’Argentina che ancora aspetta di incoronare il proprio leader: sarà per l’ingombrante paragone con Maradona, che da sempre lo designa come suo unico erede, ma tra Messi e la maglia biancoazzurra ancora non è nato l’idillio. Il ricordo delle recenti sconfitte in finale ai Mondiali e in Coppa America è ancora vivo e ardente, tanto che “scambierebbe tutti i Palloni d’Oro per una Coppa del Mondo“. C’è tempo per rifarsi, il 2018 è lontano. Ora c’è un altro triplete da conquistare e Messi lo farà a modo suo, come sempre, danzando sul pallone, divertendosi a rendere semplice l’impossibile.
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