Dopo aver passato 50 giorni a dire di no all’inciucio col Cavaliere e a provare il flirt governativo con il M5S, non appena quest’ultimo ha tirato fuori il nome di Rodotà, sul quale c’era un’ampia convergenza e soprattutto un entusiamo della base, Bersani ha pensato bene di fare marcia indietro e di farsi dettare le condizioni dall’uomo di Arcore con il quale aveva giurato di non voler allearsi mai. Sembra il racconto di un pazzo. E in effetti questo è realmente un delirio politico.
Ma Bersani si è rivelato sia troppo modesto per essere l’uomo di un possibile rinnovamento, sia troppo ingenuo per nasconderlo. Cedere alle richieste del Cavaliere per candidare un vecchio arnese della nomenclatura come garante dell’immunità e antipasto dell’inciucio governativo, non è soltanto un clamoroso certificato di morte per il Pd scritto da un ceto dirigente ad encefalogramma piatto, ma viola anche la regola principe del gattopardismo italiano, quella di nascondere dietro le apparenze la volontà di non cambiare nulla. Fino a ieri infatti era Renzi che si agitava e strepitava per l’inciucio col Pd, ma oggi alza la voce contro Marini la cui candidatura ne è il presupposto: nella testa del sindaco di Firenze le idee politiche fioriscono rigogliose come gelsomini nel deserto di Atacama dove non piove da 500 anni, ma il furbetto ha ben chiaro che meno vuoi cambiare, meno devi dare a vederlo. E Marini è un manifesto vivente dell’immobilismo. Renzi come emblema del cambiamento di facciata lo sa bene.
Adesso corre voce che Marini sia solo un candidato civetta e che in realtà sarà poi D’Alema a passare: sai che differenza, tanto più che proprio baffino è l’uomo ideale per Berlusconi., quello che lo solleverà dai guai. Oppure ci sono i soliti tessitori di strategie che si affannano a giustificare attraverso segreti passaggi questa ridicola figura. Ma dietro ahimè non c’è proprio nulla, c’è solo la pura, semplice stupidità di gente sopravvissuta a se stessa.