Paco de Luna - Quarto quadro [gianbarly] La lista

Da Gianbarly

R.Magritte - The son of man


Com’era andata con Paco? Rimuginavo dentro di me quella domanda senza riuscire a darmi una risposta convincente. Eppure avrei dovuto essere soddisfatto, avevo raccolto un bel po’ di materiale. Avevo, soprattutto, una serie di squarci sul suo passato, sui primi passi della sua carriera. Qualcosa che non mi sarei aspettato. C’era vita, vita vera là dentro, da far appassionare gli spettatori. C’era il modo in cui la raccontava lui e c’era quello di Lourdes. Un controcanto con i fiocchi. Eppure …
Eppure non mi sentivo tranquillo. Avevo dentro un’irrequietudine, un senso di disagio che non mi dava pace. Invece di godere del mio successo professionale, provavo un indefinito senso di colpa nei confronti dell’artista, come se gli avessi rubato qualcosa, anche se di fronte a lui non mi era possibile nascondere nulla; mi leggeva nel pensiero con la stessa facilità con cui scorreva uno spartito. Questo avrebbe dovuto mettermi tranquillo; in fondo lui sapeva sempre tutto di me, anche degli incontri al bar con Lourdes, ne ero certo. Eppure non riuscivo a togliermi da dentro questa sensazione spiacevole di mancanza di lealtà nei suoi confronti.
Passai dall’ospedale, come ogni giorno a quell’ora, per avere notizie delle condizioni di Giuliana. Niente di nuovo: era sempre in coma  profondo, senza dare segni di recupero o di peggioramento. Nella sala d’attesa incrociai il suo uomo. Aveva un’aria ostinata, come di chi cerca di resistere alle continue aggressioni del destino. La naturale crudeltà del mondo sembrava stampata nei lineamenti stessi del suo viso. La sua espressione ti diceva che era uno che non si aspettava un gesto di solidarietà, che avrebbe compreso più facilmente un pugno sferrato senza apparente motivo che una carezza. Era probabilmente da questa convinzione così profondamente radicata che riusciva a trarre la forza di resistere. Il primo indiziato per quello scempio era stato proprio lui e la polizia non c’era andata leggera. Anche noi della stampa avevamo fatto la nostra parte, pur non additandolo mai in modo diretto. Per non parlare poi del tam tam ossessivo delle lingue lunghe che aveva sviluppato le proprie indagini parallele, imbastendo non uno, ma mille diversi processi su ogni possibile aspetto della sua vita. Mille processi e mille condanne senza possibilità di appello. Ma lui aveva resistito e ne era uscito pulito. Per quanto riguardava la polizia, almeno.
La vista di quell’uomo fece aumentare il mio malumore. Non me la sentivo di tornare in redazione. Cercavo fra me e me un pretesto per concludere la giornata senza altre frustrazioni. Finii per accomodarmi ad un tavolino all’aperto di un bar del lungofiume. Il tempo non era male e la temperatura ancora sopportabile. Ordinai una bibita cercando di non pensare. Mi immersi per un po’ nella contemplazione di ciò che avevo intorno. Ad un certo punto vidi arrivare uno che conoscevo. Si trattava del Moretti, con cui avevo condiviso molte serate nel corso degli anni. Ci conoscevamo abbastanza bene senza però essere mai diventati veramente amici.Lo invitai a sedersi e lui ne fu ben felice. Prese possesso della sedia più comoda fra quelle che aveva intorno e ci si installò con la modalità di chi non ha la minima intenzione di muoversi di lì per i prossimi millenni. Lui era fatto così, era la pigrizia in persona. Orgogliosamente pigro, come amava dire. Il suo orizzonte culturale (e fisico) era lo schermo LCD da quaranta pollici e la sua ginnastica limitata ai rapidi movimenti del pollice sul telecomando. Aveva un eloquio anche piacevole se si accettava di limitarlo alle vicende del basket americano o alle serie tv più o meno famose. Per me era, in quel momento, un diversivo che sentivo mi avrebbe fatto bene. Gli chiesi scherzosamente se c’era qualcosa per cui fosse disposto a lottare.“Certo che sì!” mi rispose con impeto inconsueto. “Per difendere il mio diritto a stare comodamente seduto, cazzo!” Su quello non era disposto a transigere e poteva anche accettare di buttarci delle energie. Una bella coerenza, nulla da dire.
Dopo un’oretta decisi che era tempo di andare e lo lasciai alla sua occupazione preferita. Mi stavo avviando verso casa quando al mio fianco comparve Paolo.Gli dissi dei miei progresso con Paco.“Bravo, Francesco!” disse lui, battendomi calorosamente la mano sulla spalla “ci voleva proprio, in questo momento”Lo guardai cercando una sua conferma.Annuì. Non c’era dubbio: si riferiva alla lista.Com’era a volte nel suo stile, cambiò improvvisamente discorso. Mi domandai improvvisamente  dove volesse andare a parare. Ormai lo conoscevo troppo bene e riuscivo a leggere con facilità i suoi atteggiamenti. Iniziava di colpo a parlare di un qualcosa, come se gli venisse in mente proprio in quel preciso momento. Solo una frequentazione intensa mi permetteva di cogliere il reale interesse che aveva alla questione.“Dì un po’ …” esordì guardandomi dritto negli occhi con quella sua aria canzonatoria. “Ce l’hai davvero così tanto con Maria?”Un discorso così diretto mi allarmò alquanto. Cosa poteva significare quella domanda? Aveva qualcosa a che fare con la faccenda della lista? Ma con lui non ero disposto a compromessi ipocriti.“Lo sai” risposi, chiedendomi se anche lui si fosse buttato sul carro dei vincitori. In cuor mio sperai ardentemente di no, l’avrei considerato un tradimento e dei peggiori.Lui mi squadrò a lungo e poi esplose in una risata.“Tranquillo Francesco, non farti delle idee. E’ solo che non ti ho mai visto dare contro in maniera così decisa ad una persona. Le hai dato addirittura della troia, ricordi?”Ecco qual’era il punto! Che stupido ero stato a preoccuparmi, avrei dovuto capire al volo, conoscendolo. Mi aveva sentito tirar fuori quell’epiteto e la cosa non gli tornava. E quando una cosa non riusciva ad inquadrarla in modo soddisfacente era capace di tenerla a mente per anni, fino a quando poteva tornarci sopra per chiarirla a dovere.Mi rilassai e gli raccontai di quello che avevo visto al bowling. “Ora è tutto chiaro” disse lui alla fine, guardando nel vuoto davanti a se.
Le nostre strade si divisero ed io mi avviai finalmente verso casa. Era stata una giornata pesante e non vedevo l’ora di farmi una doccia. Ma fra me e me sapevo che una doccia non sarebbe bastata a diradare la cappa di piombo che avevo addosso in quei giorni. Che tutti noi della tele avevamo addosso, per essere precisi. La misteriosa aggressione di Giuliana ci aveva colpiti, così come altri fatti di cronaca di quei giorni. Per giunta in città stava circolando della roba nuova, certe pastiglie da sballo pesante e c’erano già stati due o tre casi di ragazzi finiti al Pronto Soccorso. Poi c’erano degli strani movimenti nella palude della malavita. Sì, qualcosa stava bollendo, sotto la crosta. Non ci avevo riflettuto abbastanza fino a quel momento, troppo preso da quella maledetta Lista.
Come tutti gli altri, del resto. Non avremmo potuto farne a meno, anche volendo. Ci pensava l’Antonia a ricordarcela. Da quando si era sparsa la voce che la proprietà aveva intenzione di sfoltire l’organico di quattro o cinque elementi, lei aveva cominciato ad andare in giro con una cartellina nera. Attraversava la redazione con il suo passo deciso, tenendola stretta al petto, in modo che tutti la vedessero. Non la lasciava mai e neppure l’apriva, ma il messaggio era inequivocabile: lì dentro c’era la lista dei candidati al licenziamento. Ogni tanto si chiudeva nel box direzionale con Maria e Luciano e si faceva vedere attraverso i vetri nell’atto di consultare un qualche foglio tirato fuori dalla misteriosa cartellina.Ognuno si era fatto l’esame e si era scoperto improvvisamente fragile. Tutti avevamo una pecca, un qualche lato esposto alle critiche. Tutti potevamo essere, per una ragione o per l’altra, su quella lista e nessuno se lo poteva permettere. L’idea di rimettersi in cerca di un lavoro non piaceva a nessuno. Non che la vita là dentro fosse tutta rose e fiori, tutt’altro; ma sempre meglio di dover incassare un rifiuto dopo l’altro, nel tentativo di afferrare un qualsiasi lavoro. Molti di noi erano a TeleCittà già da alcuni anni e, nonostante la precarietà dei contratti, si sentivano comunque parte di un progetto. Non l’avremmo mai confessato, neanche sotto tortura, ma ad ognuno di noi era passato per la mente che comunque un nome era già sicuro, quello della povera Giuliana. 

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