Pur non essendo un intenditore, vedevo chiaramente le enormi possibilità che aveva, il grande carisma che emanava da ogni sua composizione. Ora capivo che cosa avesse spinto la sua donna a cercarmi. Tutto questo talento non poteva restare confinato ai pochi clienti del locale. Finii per cullarmi nel pensiero che potessero essere i miei servizi a svelare al mondo il suo talento. Mi preparai mentalmente al mio compito e, quando Lourdes mi aprì la porta, ero assolutamente determinato a condurre l’intervista in modo da raggiungere quello scopo.
Entrando feci più attenzione ad ogni particolare che mi potesse tornare utile. Attraversai il salotto lentamente, cercando di cogliere ogni dettaglio di quella casa. Dovunque guardassi regnava un gran disordine, come se gli oggetti, i molti, moltissimi oggetti che c’erano dappertutto, non fossero stati collocati con un qualche criterio, ma semplicemente appoggiati dove capitava e poi abbandonati lì. C’erano le cose che ti aspetti di trovare in qualunque salotto, divani con i cuscini, tavolini con i ninnoli, una grande credenza dell’800. Ma in mezzo a questi anche oggetti inaspettati come una ruota di bicicletta o un copriwater di legno dipinto a colori vivaci. Eppure in quel disordine, in quell’apparente casualità si poteva scorgere un senso artistico, una volontà di modellare l’ambiente secondo un criterio volto a dare una precisa impronta, quella più consona alla personalità di chi l’abitava. L’insieme emanava indubbiamente un grande fascino, rafforzato dal fatto che molti oggetti provenivano da luoghi lontani. C’erano innumerevoli testimonianze del Centro e Sud America, come mi aspettavo, assieme ad oggetti giapponesi, scandinavi o africani. Artigianato e design industriale, strumenti d’uso quotidiano e soprammobili convivevano fianco a fianco, traccia di un percorso mentale poco comune.
Paco era nella stanza che aveva adibito a suo studio. Lì dentro tutto era musica. Era una specie di zona vietata, un regno governato da un monarca assoluto, che non tollerava intromissioni di alcun genere. Mentre nel resto della casa si vedeva che il tocco gentile di Lourdes accompagnava la volontà plastica di lui, aggiungendo grazia all’insieme, qui no, nessuna mediazione era possibile. Questo era l’antro di Vulcano, abitabile solo da lui medesimo e dai suoi adepti, luogo sacro dove la musica veniva forgiata dalla possente volontà del dio. Lourdes mi fece entrare, ma lei restò al di la della soglia.Il musicista era intento a trafficare con non so quali strumenti, che a me sembravano un incrocio malriuscito fra attrezzi da meccanico e oggetti adatti a creare dei suoni. Quando avevo varcato la porta non mi aveva degnato di un solo sguardo, limitandosi a grugnire qualcosa verso Lourdes. Io lo vedevo di trequarti, senza riuscire a capire quale fosse l’oggetto del suo impegno. Aspettai rispettosamente alcuni minuti, per vedere se si decideva a darmi la sua attenzione. Mi sentivo in imbarazzo e non potevo nemmeno contare su Lourdes perché lei era scomparsa quasi subito. Mi feci forza ripensando all’entusiasmo con cui ero arrivato e alla mia determinazione a portare a compimento quella missione. Mi mossi due o tre volte dalla posizione in cui ero, procurando di fare abbastanza rumore, ma Paco era così lontano, perso in qualche suo universo parallelo, da non percepire quei timidi fruscii. Allora mi decisi a parlare“Ciao, Paco. Sono qui per l’intervista, ricordi?”Un vago movimento del braccio mi indicò una sedia. Per il resto, lui continuava metodicamente a trafficare con le sue misteriose attrezzature. Mi sedetti.I suoi gesti diventarono più ampi e frenetici. Tutta quell’attività non produceva che dei suoni metallici, come quelli di un meccanico che lavora intorno ad un motore. Si vedeva che non era soddisfatto del risultato che stava ottenendo, ma che avrebbe seguito un suo preciso piano mentale fino al momento in cui non avesse ottenuto soddisfazione. Cominciavo a temere di dover aspettare a lungo e la mia intervista rischiava di saltare. In quella penombra non potevo certo usare la macchina da presa e comunque non avrei ottenuto del buon materiale per lo scopo che mi ero prefissato. Non ero preparato ad una situazione del genere. L’altra volta tutto era andato liscio e Paco si era dimostrato aperto e collaborativo. Mi chiesi se non fosse il caso di battere in ritirata, rimandando il tutto ad un altro giorno.Ero sulle spine, in bilico fra l’idea di riprovare a parlare e quella di andarmene in punta di piedi. Maledicevo la mia incapacità di prevedere le situazioni e quindi di prepararmi a dovere su come affrontarle.“Bello!”L’improvvisa esclamazione ebbe su di me l’effetto di un tuono. Paco si era di colpo drizzato per contemplare la sua opera, finalmente soddisfatto, rimettendosi però subito al lavoro per una qualche modifica che gli era venuta in mente.
Il mio piano stava andando in frantumi. Avevo concepito un filo logico che legasse le singole interviste (ne prevedevo almeno quattro o cinque) in grado di svelare al lettore l’animo di questo grande cantante. Ogni puntata doveva metterne in evidenza un aspetto, facendo in modo che lo spettatore si incuriosisse, appassionandosi alla storia di questo cantante. La prima intervista doveva incentrarsi sulla capacità comunicativa di Paco.
Un senso di fallimento si stava impossessando di me, aumentando quell’apatia che mi impediva di agire. Mentre il mio corpo sedeva quietamente dove gli era stato ordinato, la testa invece ribolliva di pensieri contrastanti, che invece di portarmi a prendere una decisione, mi paralizzavano completamente. Una parte di me cominciò seriamente a temere che non sarei più stato in grado di muovermi. Di colpo Paco sembrò accorgersi della mia presenza. Cominciò a fissarmi, tralasciando quello che stava facendo. Aveva uno sguardo torvo, cattivo, sembrava sul punto di volermi divorare.“Una scimmia!! Io – urlò battendosi forte e ripetutamente una mano sul petto – non sono altro che una scimmia!”Si alzò, avvicinandosi.“Cosa puoi volere mai da una scimmia, tu che sei un povero giornalista? Eh, dimmelo!”“Ma … Paco. Ecco, io vorrei…”“Tu non vuoi proprio niente, stupido!”Venne a piazzarsi di fronte a me, sovrastandomi con la sua figura. Cominciò a battermi insistentemente l’indice sulla spalla, come se volesse farmi cadere all’indietro.“Lo so cosa vuoi tu! Ma te ne devi andare, ecco cosa devi fare. Devi uscire da quella porta e sparire per sempre!”Erano parole che non ammettevano replica. Mi alzai, cercando di sfilarmi da quella posizione senza perdere troppo la dignità. Riuscii a mettermi in piedi e a retrocedere piano piano verso la porta.Un suo gesto mi bloccò.“Lo sai cosa fa una scimmia?”Non mi diede il tempo di rispondere e, del resto, non avrei saputo cosa dire.“Cosa fa una scimmia? Cosa può fare una stupida scimmia? E tante scimmie insieme? Dieci, cento, un milione di scimmie, anche un miliardo di scimmie che battono i tasti di un computer, per ore, senza mai fermarsi, dieci e più ore al giorno!”Riprese fiato.“Pensaci, stupido! Un miliardo di scimmie che scrivono, giorno dopo giorno, battendo a caso i tasti del computer! Pagine e pagine di cose assolutamente incomprensibili, milioni di pagine inutili e poi … per la forza misteriosa della probabilità, una di loro compone non una parola o una frase, ma un’intera terzina della Divina Commedia!”Si zittì di colpo, trapassandomi con quegli occhi roventi.“Eccoti servito, giornalista! Io sono quella scimmia, quella è la mia arte!”Si girò su se stesso, rimettendosi al lavoro.
Nell’uscire trovai Lourdes in uno stato di grande apprensione. Doveva essersi immaginata quello che era poi successo e si stava arrovellando su come risolvere la questione. Tuttavia mi accompagnò silenziosa alla porta. Solo quando mi girai per salutarla mi toccò per un attimo la mano. Era il suo modo di incoraggiarmi a non mollare.
vai al capitolo successivo