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Padre Bartolomeo Malaspina e il Museo etnografico dei Missionari della Consolata in Torino

Creato il 23 gennaio 2015 da Marianna06

 

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Era un agosto di circa dieci anni fa (forse anche  qualche anno di più) quando, con mio marito, in una assolata mattinata, mi recavo a Torino.

E un taxi dalla stazione di Porta Nuova mi portò, senza troppi intoppi di traffico, in corso Ferrucci 14.

Dato il mese, molti erano ormai i torinesi in ferie, e c’erano poche automobili in circolazione.

Andavo, o meglio andavamo, per salutare un amico, missionario della Consolata, che sapevamo prossimo alla partenza per l’Africa.

L’amico era stato destinato in missione nella Repubblica democratica del Congo e, come tutti i missionari, nel parlare della nuova destinazione e dei tanti progetti, che già aveva in mente di poter realizzare laggiù, oscillava, nei toni, tra l’entusiasmo paragonabile a quello di un fanciullo per il “nuovo” e un pizzico di nostalgia, umanamente comprensibile, per quanto lasciava in Italia: familiari, amici, confratelli.

Dopo una ricca,cordiale, quanto breve conversazione (i missionari chi li frequenta sa bene che hanno sempre parecchio da fare e mai tempo in eccedenza da perdere in convenevoli) fu lo stesso amico a indirizzare me e mio marito alla visita del Museo etnografico, presente nell’Istituto, che mai avevamo  avuto opportunità di visitare in precedenza.

E fu  così che  conobbi e conoscemmo padre Bartolomeo Malaspina, che,oggi, 23 gennaio, compie addirittura cento anni.

Il ricordo che ho di lui è di un uomo anziano ma, al contempo, molto attivo e presente a se stesso. Riservato,cioè di poche parole nel rapportarsi agli altri, affatto invadente ma disponibile all’istante a offrire, con dovizia di particolari, tutte le spiegazioni in caso di richiesta.

Ciò che traspariva, a ogni chiarimento offerto, era una grande passione per quella che, ormai da anni, era la “sua” creatura :  il museo.

E di lui, di padre Bartolomeo, solo che il suo sguardo si soffermasse su di un oggetto, su di una maschera, su di  una fotografia d’epoca piuttosto che su un’ altra, nell’accompagnare il visitatore, si capiva subito quanto gli stesse a cuore tutta la  ricchezza di quei pregevoli reperti, catalogati, ordinati e messi in mostra per differenti paesi, etnie  e continenti con consumata perizia.

Un compito, il suo, dai tempi lunghi ma che scaturiva da una motivazione  precisa e puntuale e, quindi, da una passione autentica.

Definire il museo etnografico dei Missionari della Consolata “prezioso”  non è  per nulla esagerato.

Lo confermano gli apprezzamenti di studiosi di etnografia e antropologia, noti e meno noti, che lo hanno visitato in differenti occasioni, e alcune citazioni in  pubblicazioni al riguardo.

Esso, voluto dallo stesso Allamano, cominciò ad essere allestito già a partire dal lontano 1902.

E l’Allamano lo aveva voluto in quanto riteneva che fosse importante per la città di Torino la conoscenza degli usi e dei costumi di quei popoli lontani, cui aveva inviato i suoi missionari per l’evangelizzazione.

In un certo senso era un po’il fare da ponte.

Ritornando al “nostro” vegliardo,  un alessandrino di Sezzadio, tempra indistruttibile, di quelle ai nostri giorni difficilmente reperibili in circolazione, possiamo dire che scelse di farsi missionario in quei lontani anni, era il 1932, anche per poter andare in Africa.

Così ,almeno, tra il serio e il faceto, ha sempre detto lui.

E non si fa fatica a credergli ma naturalmente con beneficio d’inventario.

Perché la vocazione missionaria è ben altra cosa da un viaggio avventuroso alla scoperta di un continente.

L’Africa della prima metà del ‘900, tra l’altro,  non era di certo raggiungibile, come avviene oggi, in  comodi jet di linea.

Allora si viaggiava in nave e la durata del viaggio era lunghissima oltre che stancante e sovente non priva d’incognite.

E le comunicazioni, una volta sul posto, erano decisamente difficoltose. Le lettere pervenivano in Italia solo dopo mesi.

Pertanto l’andare di allora doveva nascere assolutamente da una spinta sentita e molto seria.  E, sicuramente, a parte la passione per l’Africa, la sua storia e  le sue civiltà, l’essere missionario e portare il Vangelo in terre sconosciute e lontane costituiva per padre Bartolomeo, così come per tanti altri  giovani come lui,del suo tempo( e non solo del suo tempo), la vera autentica sfida.

Quella prioritaria, che da adolescenti,alcuni più di altri avvertono.

Quella per cui, con amore e convinzione, una volta per tutte ci si  mette in gioco e si scommette sull’intera esistenza. Perché scelta più bella non c’è.

Ordinato prete a Torino, nel 1939 , alla vigilia della seconda guerra mondiale, il nostro fu subito inviato in Tunisia come cappellano militare. E furono tre anni d’impegno oneroso a soccorrere i feriti sotto continui bombardamenti. Ma l’uomo e il sacerdote non si perse mai di coraggio.

E altri tre, non meno complessi, furono quelli trascorsi successivamente in un  campo di concentramento, prigioniero degli inglesi.

Di rientro, al termine del conflitto, torna a vivere finalmente tra i suoi confratelli missionari, che per altro nel mentre lo avevano creduto morto, e lavora alla formazione di giovani postulanti oltre che a insegnare, in seguito, a generazione di missionari-novizi materie come scienze naturali, chimica e fisica nelle scuole dell’Istituto.

Negli anni ‘60 arriva la progettazione vera e propria del museo, una progettazione basata su moderni criteri e, poi, la realizzazione e l’allestimento  nei locali dell’ Istituto missionario di corso Ferrucci.

E’ l’opportunità per padre Bartolomeo  Malaspina, a partire dagli anni ’70 in avanti di vivere in prima persona un sogno a lungo sognato e offrire, al contempo, alla città di Torino, alle scuole, alla stessa università e agli appassionati, un servizio impagabile.

Il materiale visitabile oggi è di carattere prevalentemente etnografico e riguarda le tribù africane dei Masai, dei Turkana, dei Pigmei e degli Zulu. Ossia quelle residenti nell’ Africa orientale e meridionale.

Prime tappe e primi incontri dei Missionari della Consolata nel secolo scorso con le popolazioni africane.

Nonché è possibile osservare anche parecchio altro materiale proveniente dall’Amazzonia latino-americana (Colombia,Venezuela, Brasile).

E, ancora, si possono ammirare alcuni pezzi, che appartengono addirittura a culture precolombiane,  come i Quimbaya e i Tumaca, con l’aggiunta di pochi ma interessanti esemplari della cultura egizia, etrusca e greco-romana.

Molto interessante  è pure l’erbario per gli studiosi di botanica, realizzato con reperti di piante del Kenya,  del Tanzania, dell’Etiopia e  del Mozambico. E altre dell’America meridionale.

Una visita , per chi non l’avesse mai fatta, il museo etnografico dei Missionari della Consolata di Torino di certo la merita.

Perché, senz’altro,  è una rassegna  importante sotto il profilo culturale.E una scoperta piacevolissima persino per i non addetti ai lavori.

Ma il recarvisi sarebbe anche, e soprattutto, un doveroso omaggio allo zelo, allo studio e alla passione di padre Bartolomeo, custode impareggiabile di tanta cultura materiale, cui auguriamo, in occasione del suo compleanno, di oltrepassare il secolo già compiuto in tutta  serenità e salute. 

 

                                           Marianna Micheluzzi (Ukundimana)


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