Salvador Dalì, il grande paranoico
Nel 1936 Dalì eseguì un dipinto alla maniera degli antichi maestri che segnava l'apice del contrasto tra realismo ricco di dettagli, figurazione manierata e fantasmagoria, dimostrando come, per lui, il paesaggio non avesse una funzione a se stante, ma costituisse sempre il luogo delle metamorfosi, che alienano ogni descrizione fedele alla natura portandola nel dominio dell'allucinazione. Sto parlando de Il grande paranoico. Riguardo a questo dipinto, torna alla mente quel passaggio del diario dell'artista, La vita segreta di Salvador Dalì, nel quale il pittore descrive il momento che scatena la sua immaginazione, con parole simili a quelle usate, secoli prima, da Leonardo da Vinci, non da ultimo spiegando in termini "genetici" la ricca fantasia dei paesaggi immaginari. Dalì racconta di come fosse solito, durante le noiose lezioni a scuola, osservare il soffitto sporco dell'aula: "le grosse macchie marroni di umidità diventavano, nella mia fantasia, nuvole, poi immagini concrete che andavano via via assumendo un significato molto preciso. Giorno dopo giorno, ritrovavo le immagini viste il giorno prima, le ricostruivo e davo nuova forma alle allucinazioni". La fantasia di questa grande composizione paranoica magistralmente dipinta tono su tono sembra trasportare l'osservatore nell'inferno dantesco, dove le anime perdute vagano senza posa o si lasciano andare alla rassegnazione. L'assoluta mancanza di significato della vita di queste creature trova un appiglio solo nel momento in cui i loro corpi, come nelle trance di un gioco anamorfico, si tramutano in crani umani e maschere malinconiche.Le analogie tra questo dipinto e le opere del pittore tardo-barocco italiano Alessandro Magnasco (di cui vi ho parlato QUI) si riflettono nell'atmosfera de Il grande paranoico. Avvalendosi di questi mezzi espressivi, Dalì propone uno scenario naturale che, per desolazione, appare come uno sconfinato "inferno terrestre".Potrebbero interessarti anche :
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