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PAGANESIMI ELETTRICI - Wim Wenders e il Fauno - Pt.1

Creato il 11 luglio 2012 da 79deadman @79deadman
"Wim Wenders e il Fauno" è l'ultimo racconto del ciclo "Paganesimi Elettrici". L'E-Book integrale è già disponibile qui, mentre per approfondire la genesi e il significato dei racconti il post di riferimento è questo
PAGANESIMI ELETTRICI - Wim Wenders e il Fauno - Pt.1
In quella cantina vuota il metallico sibilare della macchina da presa rimbombava come il ronzio elettrico di un enorme insetto robot imprigionato in una ragnatela. Poco sole filtrava da lucernai ingrigiti e le riprese erano sfocate ed oscure. Shart con i suoi bonghi aveva lo sguardo perso mentre Peter Leopold, ennesimo batterista, imperterrito, lucidava gli immancabili occhiali neri. I primi accordi di Kanaan fecero sobbalzare il Principe Viaggiatore che si risvegliò dal suo torpore antico scrollandosi da dosso la polvere e il sonno: era una musica che si sarebbe più facilmente ascoltata nei serragli ad est di Erzurum, dove la via della seta incontra gli ultimi monasteri ortodossi prima di perdersi nello zoroastrismo persiano. Accordi modali di chitarra, rintocchi di vibrafono e tabla insistenti tutt’attorno, come se la melodia trovasse ispirazione dalle minoranze curde che ora si nascondevano negli anfratti della Germania nazista. La linea vocale, in un idioma ignoto, poteva sembrare greco antico quanto sanscrito o un perduto dialetto indoeuropeo: parlava di disperazione, di perdita, sommessamente recitava un esorcismo che scardinasse quell’aura di morte opprimente che aveva avvolta l’Europa come una pestilenza biblica. Il controcanto di Renate Knaup, con voce da sirena stanca, armonizzava le spigolosità di una psichedelia ritardataria e scontrosa, cresciuta lontana dalle spiagge assolate di Venice o Coronado. In chiusura, una balbettante coda di jazz derviscio per chitarra cercava inutilmente di lenire il cupo umore del resto della band. Il giovane regista scrutava il gruppo, immobile dietro l’oculare di una cinepresa anch’essa immobile: il quadro immutabile ritagliava mezzi volti, mezzi sguardi e qualche ombra. Il Principe Viaggiatore scrutò tutt’attorno a sé. Dal buio apparvero volti deformi, ghigni spastici, occhi a mandorla, visi moreschi, barbe fluenti.  Al di fuori della cantina della masseria, la campagna della Baviera era scossa dai frustrati rastrellamenti delle ultime compagnie SS superstiti. In quella fresca primavera del 1945 il Terzo Reich era accerchiato da ogni parte: mentre i Russi penetravano da ovest, le truppe di Patton unite a battaglioni Anglo-Francesi cercavano un varco in direzione sud, verso l’Austria: caduta Norimberga, presa Monaco, gli alleati erano sulle tracce dell’ultimo fantomatico Ridotto Nazista Alpino che si diceva controllasse ancora i passi delle Alpi Noriche e gli accessi all’Italia Settentrionale, asserragliato in antichi forti austroungarici scavati nella roccia e pronti a resistere ad oltranza all’avanzata degli eserciti Impuri. Mortificato, ferito e sbandato, l’esercito tedesco era in realtà un orrendo mostro sanguinolento e delirante che cercava di lasciare dietro di sé la più atroce scia di morte, prima di soccombere esso stesso sotto i colpi degli Alleati. Nella Baviera del sud, alle prime propaggini delle Prealpi, gli irregolari del Colonnello Gunther Hildebrandt avevano da alcune settimane iniziato una repressione sistematica ed ignobile nei confronti di ogni persona che solo si rifiutasse di eseguire pubblicamente il saluto al Fuhrer. Tra le vittime preferite c’erano disabili, omosessuali, malati cronici. Poi stranieri, turchi, orientali, gente di vari colori e fogge, disertori, collaborazionisti. Ma anche artisti non allineati, pittori, cineasti e documentaristi. Che ora, con imam e rabbini uno a fianco all’altro, condividevano un rifugio improvvisato nella cavernosa cantina della vecchia masseria del Principe Viaggiatore, persa tra i boschi radi di Rosenheim, alla ricerca di riparo dalle rappresaglie e dalle vendette.  Eppure, fino all’interno di quelle pareti di sasso, penetrava il rumore dei disperati cannoneggiamenti della Wehrmacht, che tiravano alla cieca con il solo intento di spargere paura tra gli innumerevoli che speravano in una rapida fine del più aspro conflitto che l’uomo aveva mai conosciuto. Lo Standartenführer Hildebrandt era cresciuto al temutissimo RuSHA, Ufficio Centrale per la Purezza della Razza, e durante il conflitto era più volte stato promosso sul campo. Già a capo di uno squadrone della Morte non riconosciuto ufficialmente dalle SS, che aveva falcidiato militari e civili francesi in ritirata dopo la disfatta di Lille, aveva fama di essere il più sanguinario e violento ufficiale ancora attivo nel teatro di guerra centroeuropeo. La sola idea della sua presenza tra le alpi bavaresi aveva gettato nello sconforto tutti i partigiani della zona, ora dispersi e abbandonati. Il Principe Viaggiatore, confidando che quella sua sperduta e diroccata masseria avrebbe offerto,  se non una protezione, almeno un nascondiglio efficace, contemplava la varia umanità di quella Corte dei Miracoli a cui aveva offerto ospitalità. I ragazzi che suonavano avevano visi tirati, capelli lunghi, barbe folte, pastrani multicolore. Erano l’opposto del modello che la Hitlerjugend aveva per anni contrabbandato come l’unico tipo umano possibile e degno di riprodursi. Non brandivano MP 40 ma chitarre, violini e tamburi africani. Il nucleo storico di quel gruppo veniva da Monaco in cui, per un breve periodo, aveva diviso le ventotto stanze della Kommune nel castello medioevale di Kronwinkl con scultori, pittori, terroristi e installatori futuristi; era la base operativa della controcultura bavarese. Da lì partivano sabotaggi, azioni dimostrative, sit-in di protesta e concerti gratuiti allietati da sesso libero ed ogni sorta di droga sintetica. Non era durato molto. Si erano trovati un nome vistoso, Amon Duul, derivato dalla fusione di Ammone, il Misterioso, defunta divinità egizia del sole, e Düül, la storpiatura della parola anatolica “luna”, portata in Germania dalle squadre di proletari turchi in cerca di lavoro dei mastodontici cantieri del Reich. Tale nome, unito alle loro attività sottoculturali, era valso loro l’accusa di essere contrari allo spirito del Nazionalsocialismo e ferventi antipatrioti. Minati poi all’interno da dispute sulla linea da seguire, si erano scissi in due gruppi, chiamati semplicemente Amon Duul I e II: i primi identificavano nella Politica la sola via per la lotta e il cambiamento; gli altri, ora intenti ad accordare le chitarre in quella cantina dimenticata, erano l’ala artistica e musicale. Non fu un distacco facile, anzi rappresentò una frattura importante anche ideologicamente: poteva la Musica cambiare il mondo o questo era compito esclusivo della Politica? Gli anni del Greenwich Village e Blowin’ in the Wind erano morti e sepolti e la dimostrazione violenta sembrava l’unica arma rimasta ai dissidenti. O forse, questo pensava il Principe Viaggiatore, anche la Musica di per sé, o ancora di più, ogni suono, ogni rumore meditato e pubblico costituisce già azione politica? Gli slogan, le dichiarazioni, le esternazioni esplicite sono sovrastrutture secondarie e non richieste. IMMAGINI
Otto Dix - Assalto con i gas (1924)


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