La differenza fra dolore e sofferenza potrebbe sembrare una sottigliezza linguistica. Ma oggi non sono in vena - come disse l'emoderivato - e colgo solo l'occasione per riportare in forma sintetica un'osservazione di Zahira (la mia maestra) a riguardo. Essendo una donna che ha passato una buona quarantina dei suoi sessanta anni portando il suo corpo in giro - in tutti i sensi - per il mondo, in condizioni anche estreme, è normale che ora il patrimonio di traumi accumulato faccia sentire con gli interessi tutto il suo valore. E non è una notizia che faccia fare salti di gioia, in assoluto. Ma neanche, e qui sta il punto, un motivo sufficiente per genuflettersi all'altare della sofferenza, intesa - in questo caso - come compiacimento autocommiserativo del dolore fisico.
Certo che sento il dolore - dice Zahira - in ogni momento della giornata, ma non per questo scelgo di farlo diventare il fuoco e il fulcro della mia esistenza.
Ora, so già che molte persone potrebbero obiettarmi, ma che ne sai tu del vero dolore, prova piuttosto ad avere questo, oppure quest'altro, un po' come faceva il medico di Fight Club, che suggeriva a Cornelius/Edward Norton di andare a vedere nei gruppi di sostegno per i malati di cancro ai testicoli cosa fosse il vero dolore. Ci sono casi e casi e ognuno conosce i propri. Quello che intendo io è che assumersi la responsabilità del proprio stato d'animo è un impegno indelegabile e inderogabile. Se si ha chiaro il concetto, correggere la rotta può essere relativamente facile, oltre che discretamente gratificante.
Tutto qua. Quando ho una buona occasione per ricordarmelo, preferisco farlo.
Chi soffre volontario, senza l'apostrofo, è masochista.