Discussione a Palermo sull’impegno intellettuale e civile di Giancarlo De Carlo
Intenso momento di discussione all’Accademia di Belle Arti di Palermo su Giancarlo De Carlo e il suo libro Il progetto Kalhesa, pubblicato da Edizioni di Storia e Studi Sociali. Davanti a un pubblico qualificato, lunedì 15 dicembre 2014 hanno relazionato il direttore dell’Accademia Mario Zito, il saggista e direttore di EdS Carlo Ruta, i docenti dell’Accademia Toni Romanelli, Maia Rosa Mancuso e Alfredo Pirri, la docente di Urbanistica dell’Università di Palermo Teresa Cannarozzo. Ecco alcuni scorci del dibattito, tra i più significativi.
Toni Romanelli (docente di Anatomia artistica all’Accademia): «Questo è un momento straordinario che pone al centro un libro straordinario. Ci si può chiedere perché un testo come quello di De Carlo sia presentato in un’Accademia di Belle Arti. Ma l’idea di ripubblicare Il progetto Kalhesa nasce da un momento magico che ha avuto luogo proprio in questa aula, quando tramite un allievo dell’Accademia, Leonardo, ho avuto modo di entrare in contatto con la casa editrice Edizioni di Storia. L’interesse per questo libro è nato da una mia visita al convento dei Benedettini a Catania, quando mi sono reso conto che l’intervento di restauro operato da Giancarlo De Carlo, insieme con quello di Carlo Scarpa allo Steri di Palermo, definisce più di ogni altro l’identità dell’architettura italiana contemporanea. È stata per me una scoperta importante. Il libro nasce da un’esperienza tormentata nella capitale siciliana, e ha una storia tormentata a sua volta, di cui l’autore dà conto nell’introduzione. Esso è stato pubblicato venti anni fa da Marsilio, dopo che l’editore siciliano che doveva pubblicarlo, mi dicono Sellerio, a bozze corrette si era ritirato. Il fatto che adesso una casa editrice siciliana abbia deciso di ripubblicarlo, peraltro in bella veste grafica, curata da Maurizio Accardi, qui presente, costituisce allora una occasione storica, per la scottante attualità del messaggio, che parla all’Italia intera, e per sollecitare un dibattito che negli anni novanta, all’uscita della prima edizione, è stato soffocato».
Carlo Ruta (direttore di EdS e saggista):«Abbiamo raccolto con slancio la proposta del prof. Romanelli, perché il libro di Giancarlo De Carlo si situa con pienezza nel progetto che abbiamo intrapreso negli ultimi anni, che non vuol essere editoriale nel senso tradizionale: si tratta di un’esperienza, di un percorso di studi e di sollecitazioni conoscitive che intende affrontare problemi irrisolti, rimuovere luoghi comuni, intervenire sulle aree di rimozione che persistono nel tessuto delle idee del nostro Paese. Ci siamo lasciati ispirare per certi versi dall’Einaudi del secondo dopoguerra, entro cui sono confluite energie intellettuali in grado di elaborare progetti civili di indubbio spessore. Ecco, ritengo che dal Mezzogiorno, dalla Sicilia, sia opportuno proporre percorsi ed esperienze di questo tipo, tentare strade difficili, elaborare idee e cercare di rimuovere tutto ciò che opprime la conoscenza delle cose. Il progetto Kalhesa di De Carlo parla una lingua che ci interpella: pone in discussione paradigmi, denuncia le regressioni della politica, le logiche e i travestimenti del potere, indica strade aperte. In sostanza, come ha ben detto il prof. Romanelli, il libro dell’urbanista genovese porta con sé un messaggio importante, che non appartiene solo a quegli anni e che rimane per certi versi attualissimo. Le cronache, non soltanto politiche, testimoniano del resto più del necessario quanto l’Italia dei nostri giorni sia omologa alla Palermo rappresentata da De Carlo».
Maia Rosa Mancuso (docente di Elementi di architettura e urbanistica all’Accademia): «L’interesse di Giancarlo De Carlo per la città mediterranea nasce dal tipo di complessità che essa esprime. Kalhesa è Palermo: è un luogo particolare, che rappresenta tuttavia, nello stesso tempo, una condizione universale. Nella città mediterranea il disordine è in realtà un ordine di segno diverso: una differente modalità di ordine. Questo tipo di città è perciò quello che ha sentito meno le conseguenze della cultura dello standard e della zonizzazione. Per una resistenza all’attuazione della norma si apre infatti a un processo di autogenerazione degli spazi. Quando De Carlo parla della città mediterranea parla di una condizione. Nelle mappe di questi centri urbani esiste una equivalenza e una continuità tra pieno e vuoto, con le strade che continuano nei cortili, negli atri e così via. Ne deriva un processo vivificante di attività e di relazioni umane, che per De Carlo è di grande interesse. E questo interesse non manca di ragioni biografiche. Egli nasce a Genova, ma da un padre che è nato a Tunisi da genitori siciliani. Ha una madre nata in Cile ma da genitori piemontesi. Vive inoltre gli anni della prima formazione a Tunisi. Quindi la cultura delle molteplicità e delle differenze la porta dentro di sé e forgia il suo carattere, la sua indole di teorico e di acuto osservatore. Tutto questo spiega il suo interesse per lo spazio, che reinterpreta come vita e area di relazione sociale. Alle politiche di una cultura dell’astrazione oppone perciò il paradigma del radicamento nei luoghi, che trova peraltro degli utili spunti di elaborazione nel rapporto che stabilisce con Elio Vittorini e Italo Calvino».
Teresa Cannarozzo (docente di Urbanistica all’Università di Palermo): «Il contesto del Comune di Palermo di quegli anni era estremamente opaco. Era ancora attivo Vito Cincimino, con i suoi diktat e le sue emanazioni, anche a livello di burocrazia comunale. In modo calcolato, il Comune optò per un suo studio ed evitò di ricorrere a un nuovo strumento urbanistico. Le regole vigenti del centro storico restavano perciò quelle del piano regolatore del 1957, che fu funzionale al sacco della città. Questo però non venne compreso a sufficienza, né dai miei colleghi della facoltà di Architettura né da Giuseppe Samonà, il quale, sospinto dalla sua passione, dal suo impeto e dalle sue certezze, sembrava non rendersi conto che per mettere mano a un’area tanto importante e tanto degradata, occorrevano conoscenze oggettive e nuove regole operative. Samonà preferiva passeggiare tra le vie del centro storico con un codazzo di giovani, cui indicava gli edifici “belli”, da conservare, e quelli “brutti”, da demolire. Era inoltre dell’idea che tutti gli alberi dovessero essere abbattuti perché impedivano la vista delle architetture. Si dimostrava insomma abbastanza pericoloso. Disponeva inoltre di carte molto approssimative dell’area su cui si doveva intervenire; le previsioni del suo studio risultarono perciò altrettanto vaghe. Si trattava in realtà di una grande recita, che avrebbe lasciato intatte le cose. Il Comune quindi lasciava fare. L’ingegnere Biondo, educato alla scuola di Ciancimino e a capo del settore urbanistico al Comune di Palermo, continuava a dare le sue indicazioni. E in tale quadro, il rapporto tra De Carlo e Samonà fu per forza di cose estremamente conflittuale, tale da indurre il primo a “ritagliare” per sé un pezzo di centro storico, l’Albergheria, su cui lavorò con un gruppo di giovani».
Alfredo Pirri (docente di Pittura all’Accademia):«Perché si presenta in questa sede istituzione, in una Accademia di Belle Arti, Il progetto Kalhesa di Giancarlo De Carlo? La risposta ci è data con chiarezza dallo stesso autore, quando dice, nel libro Conversazioni su architettura e libertà, scritto poco prima della morte, che “l’architettura è troppo importante per lasciarla in mano agli architetti”. Fin qui si è parlato soprattutto degli eventi che hanno fatto da sfondo e da premessa al libro di De Carlo, ma mi preme sottolineare alcuni contenuti di questa opera. Si tratta sicuramente di un libro politico, molto critico. Sono straordinari i termini in cui De Carlo maschera i protagonisti, i partiti, le altre entità in causa: i Reliquiari, Ghermiglioni, gli Austeri, l’Organika. Ma proprio questi termini danno plasticamente l’idea di cosa sia Il progetto Kalhesa di De Carlo. Non si tratta solo di un libro di denuncia politica ma anche di un romanzo. Motivo della narrazione non è solo la difficile elaborazione di un progetto di recupero che mascherava in realtà la volontà di lasciare tutto inalterato. Ad un certo punto De Carlo accenna, seppure velatamente, a una sua fonte d’ispirazione, che è Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse. E a ben vedere, questi due libri hanno delle similitudini, perché ambedue danno nome, intanto, a cose di cui non si coglie l’esistenza. Il gioco delle perle di cui parla Hesse rimane al lettore un enigma, ed enigmatici appaiono i meccanismi di potere narrati da De Carlo».
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