Palermo, storia di criminalità e onorabilità

Creato il 25 ottobre 2012 da Tabulerase

Ancora una tragedia per Palermo. Ancora un’occasione per raccontare una città le cui vicende, troppo spesso, ci riportano alla storia peggiore di questo Paese. L’assassinio freddo e spietato perpetrato ai danni di una giovanissima studentessa liceale la cui unica colpa era quella di aver tentato di difendere la sorella dal raptus omicida del suo giovanissimo ex fidanzato, Samuele Caruso, che con la sua efferata determinazione ha ferito gravemente la sua ex, Lucia Petrucci, e ucciso la sorella, Carmela. Il “delitto d’onore” che in questi giorni di mite autunno ha lacerato Palermo, rappresenta l’ennesima testimonianza di una città disumana, mossa da violente pulsioni ancestrali, priva di anima e dilaniata dall’incapacità di sentimenti come la pietà e la solidarietà. Si tratta di una delle tante espressioni possibili di un substrato sociale variegato e ricco di sottoculture eterogenee, guidate da istinti ostili ed egoistici, che assumono tutte le forme possibili del familismo amorale.

 E così, dal primato della reputazione sociale all’onorabilità della famiglia, dall’asservimento dei cittadini alle logiche della mafia alla cultura della corruzione, dalla manifestazione urlata del dolore alla perpetuazione di pratiche sociali retrive e superstiziose, dalla clientela politica all’atteggiamento perverso dell’omertà, dalla pratica intimidatoria al primato della raccomandazione, dal dogma del rispetto a modelli arcaici di patriarcato, questa città disgraziata e provata da secoli di dominazioni pare annoverare tutti i peggiori vizi dell’uomo. Una vera e propria Weltanschauung che ha avvelena ogni singola manifestazione antropologica e che si traduce spesso in una vera e propria caratterizzazione antropomorfica di memoria lombrosiana, che trasfigura il volto della città marchiandola con i segni di decenni di incuria, saccheggi, soprusi.

Già all’indomani della seconda guerra mondiale per le strade della città vecchia si sparava per il controllo di attività illecite sul territorio, dal traffico delle sigarette a quello degli stupefacenti, fino al business dell’edilizia. L’affare Giuliano e la strage di Portella della Ginestra e la decisione del governo regionale di avviare, nel dicembre del 1950, la riforma agraria avevano consegnato la città nelle mani di Don Calogero Vizzini e di Giuseppe Genco Russo, trasformando Palermo in un dominio incontrastato della mafia. Fu necessario, come si dice oggi, un tavolo tecnico tra Cosa nostra e mafia siciliana per giungere a regole condivise per garantire la coesistenza dei diversi interessi nell’ambito dei traffici illegali. L’incontro si tenne, nell’ottobre del 1957, presso l’Hotel des Palmes; alla riunione parteciparono i vertici della mafia americana di Lucky Luciano e di quella siciliana. È proprio in questo contesto che origina il cosiddetto “sacco di Palermo”, nello stesso tempo in cui i rapporti tra politica ed interessi mafiosi cominciano a strutturarsi in maniera organica e contigua. La Regione era governata da un tricolore DC-PLI-PSDI e uomini come Salvo Lima e Vito Ciancimino esordivano sulla scena pubblica, rispettivamente come assessore ai Lavori pubblici e assessore alle Aziende municipalizzate del Comune di Palermo. Come raccontano Michele Pantaleone in Mafia e politica del 1962 e Gabriello Montemagno dalle pagine dell’edizione di Palermo de la Repubblica dell’11 ottobre del 2007, il “memorabile summit di mafia si tenne a Palermo all’Hotel des Palmes fra il 10 e il 14 ottobre 1957 … pare si sia svolto in un appartamento al primo piano, lo stesso in cui agli inizi del 1881 Richard Wagner compose al pianoforte il terzo atto del Parsifal … la polizia sapeva tutto …”.

Da quel momento la storia di Palermo è diventata cronaca quotidiana che racconta di piccoli e grandi crimini, di malavita organizzata e di politica corrotta, di assenza delle istituzioni e di inciviltà diffusa, di un territorio urbano depredato e di una carenza diffusa di coscienza collettiva e di senso civico. In qualche modo Palermo testimonia quella doppiezza morale tipica dell’italiano medio che esprime sempre qualcosa di diverso da quello in cui realmente crede: la domenica si reca a messa ma poi si rivela intollerante e razzista, condanna la classe politica ma poi persegue il voto clientelare, si professa contro la corruzione ma poi costruisce la casa abusiva, rivendica una società della legalità e delle regole ma poi disprezza la magistratura che le fa rispettare. Non è un caso se il magistrato Roberto Scarpinato in Il ritorno del principe del 2008, racconta come nei fatti l’Assemblea costituente prima e poi la Costituzione abbiano rappresentato una “parentesi isolata in un contesto storico-sociale tremendo nel quale la corruzione, l’arroganza e la mafia sono diventati, per lunghi periodi, elementi stessi del potere. Un braccio armato che ha i volti impresentabili di Riina, Provenzano, Lo Piccolo, ma che ha accanto la borghesia mafiosa che frequenta i salotti e si fa rappresentare dai suoi uomini in Parlamento”.

Già, proprio quegli stessi salotti buoni frequentati da aristocratici, politici, artisti, intellettuali, che hanno contribuito in maniera significativa a relegare la città in una condizione di arretratezza culturale, infarcita di elementi nostalgici, resistente al cambiamento e ancorata ad un passato oscurantista e decadente che l’ha bloccata per decenni. Lo stesso termine “intellettuale”, abusato per troppo tempo, ha creato veri e propri mostri che, dalle pagine dei quotidiani cittadini, troppo spesso si abbandonano a sarcastici e pessimistici interventi che disvelano un pensiero a vocazione autoreferenziale. Incapaci di elaborare una proposta seria di discussione sulla crescita della città, alla luce dei grandi mutamenti globali e dei dibattiti internazionali, si contendono il primato delle “rubriche” o degli editoriali da cui aspirano a ruoli da opinion leaders, sortendo nei lettori solo la sensazione desolante d’aver perso tempo prezioso nella lettura del nulla. E di cui resta solo l’amara constatazione di un deserto del pensiero e di un silenzio complice dei tanti pseudointellettuali la cui critica, piuttosto che misurarsi con la realtà, troppo spesso si è rivelata organica ad un sistema di potere o sensibile ai criteri dell’opportunità e delle aspettative personali.

I 10 anni di amministrazione Cammarata, che hanno replicato seppur in forme misere e discutibili, il modello berlusconiano del “buon governo”, lasciandosi dietro macerie sociali e strascichi giudiziari hanno consegnato alla nuova giunta di Leoluca Orlando una città piagata da anni di abbandono in cui tutti hanno preso quello che potevano, sacrificando quel minimo di amore per il bene comune, ereditato dalla “Primavera palermitana” degli anni ’90, e perseguendo in maniera predatoria interessi egoistici a spese della collettività.

I palermitani stanno pagando un prezzo altissimo per i propri errori, sperimentando livelli record di disoccupazione – come testimoniato dall’Osservatorio economico della Camera di Commercio – con il 44,7% dei giovani nella fascia tra i 15 e i 24 anni ed oltre il 38% di NEET (giovani che non cercano lavoro, né studiano); la vivibilità urbana è gravemente compromessa dalle ridotte attività delle Aziende municipalizzate molte delle quali commissariate e in liquidazione (come l’Azienda per l’igiene ambientale) e dal triste primato di città più congestionata d’Italia (quarta nella classifica europea dietro Istanbul, Varsavia e Marsiglia); la crescente richiesta di “pizzo” da parte delle cosche palermitane sta strozzando quel che resta dell’economia locale. Infatti, come testimoniato dai dati di SOS Impresa, la mafia ormai ha riacquisito il pieno controllo di Palermo. Come a Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Catania e Messina, il fenomeno è talmente pervasivo da interessare percentuali comprese tra il 70 ed il 90% dei commercianti; come se non bastasse, giardini e parchi e pubblici sono in stato di abbandono e ormai trasformati in occasionali discariche di spazzatura; le strutture sportive chiuse … Insomma, una situazione così grave da richiedere un impegno gigantesco ed uno sforzo titanico, un grande coraggio e tanta onestà!

Tuttavia, oggi, a fronte della grave emergenza sociale, economica e culturale la città risente della mancanza di un progetto complessivo di crescita, di un’idea di sviluppo che promuova le energie migliori e ripristini un principio di meritocrazia ed equità a fronte delle tante scandalose vicende del precariato, come quello della Gesip, che hanno premiato invece le logiche dell’appartenenza, della clientela e della raccomandazione sottoprofessionalizzando il lavoro e vanificando i sacrifici di quanti, dopo aver investito nell’istruzione e maturato aspettative, sono costretti ad emigrare.

È in tale contesto che si inseriscono le vicende politiche siciliane. Salvatore Cuffaro, ex governatore della Sicilia, nonostante stia scontando una condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa nostra, recentemente, in occasione di una visita al padre malato – come racconta Alessandra Ziniti su la Repubblica del 9 ottobre scorso – è stato accolto trionfalmente a Raffadali, suo paese di origine in provincia di Agrigento: “Totò, sei sempre grande … quando c’era lui in Sicilia si stava meglio. Dopo Cuffaro la politica è finita … L’applauso scrosciante della sua gente lo accompagna”. Raffaele Lombardo, attuale presidente dimissionario della Regione, nonostante sia stato rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, ha continuato a fare nomine improprie nel pieno disprezzo di una Regione ormai in dissesto economico. Le prossime elezioni regionali vedono pletore di candidati di ogni parte politica, di cui almeno 32 – come racconta Emanuele Lauria su la Repubblica del 24 ottobre scorso – sono indagati, rinviati a giudizio o condannati in via definitiva per reati che vanno dal peculato al falso in bilancio, dalla concussione alla truffa all’UE, fino alla fittizia intestazione di beni. Tutto questo mentre i palermitani, mostrano un’indifferenza ed un’indolenza disumana, a tratti selvaggia che ricorda quella delle nutrie. Proprio quei simpatici e buffi roditori che vivono in alcuni fiumi italiani come l’Arno, che vanno sempre controcorrente, lanciandosi con fare sicuro e circospetto nel tentativo di catturare una delle tante anatre selvatiche che nuotano nel fiume ma riuscendo a racimolare solo radici e piante e, quando va bene, carne o pane che spesso i fiorentini lanciano loro dai ponti che attraversano il fiume. Un po’ come i palermitani che vivono in una dimensione spazio-temporale surreale, bloccata ignorando l’esistenza di un mondo che pulsa di vitalità e progresso, ripiegati su se stessi, sulle proprie misere esistenze fatte di egoismi familiari e personali e di una rabbia latente pronta ad esplodere contro chiunque e in qualunque momento, nella convinzione di essere sempre migliori degli altri.

 Tornando alla notizia iniziale, siamo ormai abituati alla capacità di questa città di sorprendere sempre e in maniera sempre diversa. Eppure risulta davvero inquietante leggere le parole della madre di Samuele Caruso, perché se apparentemente sembrano le parole di una madre provata dalla tragedia, in realtà disvelano modelli culturali egocentrici che si declinano in esistenze meschine talmente prive di umanità da ignorare il valore della vita ed il rispetto delle persone: “mio figlio è un bravo ragazzo. Giornali e televisioni lo hanno definito un killer ma non è così, non è un mostro. La nostra è una famiglia perbene”.


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