Quella che ci apprestiamo a fare è una recensione a quattro mani, scaturita dalla lettura del romanzo Pallida Mors di Danila Comastri Montanari, l’ennesimo caso da risolvere per Publio Aurelio Stazio coadiuvato dal (per nulla) fido segretario Castore e dall’amica Pomponia. Gabriella Parisi ed Elisabetta Ossimoro, entrambe affezionate lettrici di questa serie di gialli, si sono infatti date appuntamento per raccontare le loro impressioni di lettura.
Effettivamente, le empuse e le lamie sono proprio considerate le figure ispiratrici dei vampiri più moderni e sbrilluccicanti; era naturale, dunque, che la Comastri, sempre attenta a ritrovare le fonti in un mondo in cui nulla si inventa e tutto si ricicla, facesse in modo che, con una pesante dose d’ironia e un bel delitto – o anche più d’uno –, il senatore Stazio si avventurasse nel mito dal quale trae origine la figura del succhiasangue.
Le empuse, per citare Castore, erano «Pallide creature infernali, figlie o seguaci di Ecate, che si annunciano con grande strepito e sono capaci di assumere aspetti diversi, cagne o vacche in genere, ma anche giovani donne pallide e seducenti. Di queste ultime si dice che, a osservarle bene, mostrano le tracce della loro natura maligna facendo intravedere gli occhi rossi, le piccole zanne affilate e una gamba di bronzo o persino di sterco d’asina…». E, secondo Pomponia, «Non c’è mostro più perfido in cielo, in terra o nell’Ade di quello spirito femminile nefasto che si impadronisce dei giovani maschi, li affascina, li conquista, li aggioga, li esaurisce per poi sfinirne col coito le energie vitali, succhiandone sperma e sangue!». Per poter scongiurare il ritorno di questi esseri mostruosi, mani, piedi e costato dell’empusa devono essere inchiodati dopo la morte su una tavola di legno, una pratica che ricorda neanche troppo da lontano il paletto di frassino infilato due centimetri sotto il cuore del vampiro.
È proprio trovando un corpo in decomposizione sottoposto a questa procedura, in una ex-tomba utilizzata come abitazione in cui il senatore si nasconde dai suoi clientes (che, in realtà, sembrano molto più succhiasangue – o succhiasoldi – delle empuse), che si apre questa XVII indagine di Publio Aurelio Stazio. Lungo la strada il nostro detective troverà delle donne bellissime (saranno delle empuse anche loro? Le antenate delle novecentesche vamp?) e degli individui che cercheranno di farsi “adottare” nella coorte di schiavi domestici di Stazio, una familia fortunata e agiatissima.
Inoltre la Comastri ne approfitta per farci riflettere sulla disputa medicina/magia, ricondotta anch’essa all’antichità. I guaritori improvvisati, i maghi con rimedi inutili (se non addirittura nocivi), ancora mietono vittime ai giorni nostri, in cui la scienza ha fatto passi da gigante, sebbene venga quotidianamente dimostrato e documentato che essi non hanno alcun potere di guarigione. Pomponia, che nella precedente indagine – svoltasi ad Alessandria d’Egitto – ci era mancata molto, è poco presente anche stavolta, a causa di una forte depressione di cui è vittima, un male – ahimè – in agguato per molte donne che giungono alla mezza età. Ecco che Servilio, il suo caro marito, cerca l’aiuto di chiunque la possa far tornare a essere la vivace ghiottona e pettegola di buon cuore di sempre.
Sì, l’assenza di Pomponia, vittima di una depressione causata dalla menopausa (come sempre la Comastri tratta argomenti di grande modernità) si sente e si patisce anche a questo giro; sopperiscono in parte un Castore particolarmente in forma – qui lo vediamo impegnato addirittura nell’interpretazione di un finto parente di Aurelio –, l’insistente medico Ipparco di Cesarea (anche lui attivo nella crociata del senatore contro la medicina alternativa), la schiavetta lebbrosa Mirta e ovviamente tutti i membri della famiglia Velthinia Babria.
Figuriamoci se Publio Aurelio, scettico riguardo a qualsiasi forma di superstizione o pratica magica, può dar retta a simili ciarlatani. Eppure, in alcuni momenti sembra quasi farsi prendere dalla suggestione, condizionato com’è dall’ambiente credulone e scaramantico che lo circonda, salvo poi riacquistare la ragione e ridere in faccia agli impostori che sembrano aver dimenticato che i loro metodi, lungi dall’essere efficaci, sono solo degli espedienti per cavare soldi agli incauti.
Questa volta una catena di violenza perpetrata in una famiglia di antico lignaggio etrusco (il che motiva le varie incursioni in territorio umbro-toscano) porta Aurelio a conoscere i controversi membri della Gens Velthinia, da cui spiccano coppie di personaggi antitetici: le cugine Sofia e Lavinia (una dolce e accondiscendente, l’altra riottosa e bisbetica), i due fratelli Quinto e Lucio (l’uno tutto dedito alla famiglia, l’altro un avventuriero affascinante e scansafatiche) e i due giovani figli di Quinto, Quinto il giovane (un “secchione” ignaro della vita libera, la cui figura è dichiaratamente tratteggiata in omaggio al giovane Leopardi) e Furillo, il secondogenito poco promettente, il cui destino è tristemente segnato dalla totale indifferenza di parenti e genitori.
Danila Comastri Montanari come sempre non perde occasione per fare le sue lezioni di storia e letteratura antica ogniqualvolta le sia possibile, con divertentissime e uniche similitudini che donano un’irresistibile vivacità alla narrazione. Col suo stile arguto e pungente ci riporta alla memoria o ci fa conoscere per la prima volta tutta una serie di miti, costumi, figure letterarie che hanno le loro origini non solo nella cultura latina e greca, ma in tutto l’Impero Romano dei tempi dei Giulio-Claudii.
Ma sopra ogni cosa, in questo caso sembra svettare la grande cultura ingegneristica romana, con la maestosa opera di deviazione del corso del Velino che precipita nel sottostante Nera, affluente del Tevere, con un salto che sembra quasi simboleggiare la vittoria dell’ingegno romano sulla Natura stessa. La Cascata delle Marmore, la cui opera di costruzione fu avviata da Manlio Curio Dentato nel 271 a.C., fa da sfondo al romanzo, con un’affascinante ambientazione nella foresta umbra, a due passi dall’Urbe.
La scena finale del romanzo, quasi noir e gotica nella sua ambientazione notturna nei pressi delle cascate, è un momento di grande tensione giallistica, magistralmente orchestrata. A voler cercare il pelo nell’uovo, confesso che non ho trovato riuscitissima l’idea di SPOILER scorporare dalla storia dei Velthini la risoluzione della vicenda della donna “vampira” trovata inchiodata nella tomba, anche se forse collegare tutti i bandoli della matassa poteva risultare troppo artefatto. Confesso che a me invece non è dispiaciuta: fin dall’inizio ho sospettato che i Velthini non c’entrassero niente con l’empusa e che solo per caso Aurelio si fosse trovato davanti a un altro delitto. SPOILER
In definitiva un Publio Aurelio da pollice ben in alto, in linea con l’ottimo precedente Tabula rasa: la penna di Danila Comastri Montanari invecchia bene come il falerno nelle cantine del suo amato senatore!
Autore: Danila Comastri Montanari
Titolo: Pallida Mors
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 322
Prezzo: € 14,90 rilegato; € 6,99 e-book
Data pubblicazione: 5 novembre 2013
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