Ho dedicato le ultime due settimane alla lettura de Il museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk. Il nobel turco è uno di quegli autori per il quale nutro un’ammirazione senza confini. C’è una qualità nella sua scrittura che rappresenta uno di quei doni che ogni scrittore aspetta per una vita e che a volte giunge, come una pioggia di nettare dal cielo, solo dopo atroci patimenti e infinite frustrazioni, sto parlando della grazia. La grazia nella scrittura è un concentrato di armonia, semplicità, purezza, garbo, misura ed eleganza, è quella proprietà che ti consente di articolare riflessioni e imbastire intrecci sapendo sempre che la prossima cosa da scrivere sarà quella che si sceglierà da sé in modo naturale. Il tema portante di questo romanzo è la conservazione delle cose come estremo atto d’amore. La storia è il resoconto della passione amorosa che segna la vita di Kemal Basmaci per la bellissima Fusun, sua lontana cugina, un’ossessione che finirà per trasformarsi, dopo la scomparsa dell’amata, in una collezione di oggetti in grado di concedere al protagonista transitori ma salutari momenti di consolazione. La tesi sostenuta per tutto l’arco della storia è che gli oggetti sono imbevuti di una speciale forma di memoria, le azioni degli uomini, i loro passaggi sulla terra, disseminano questa memoria sulle cose con le quali entrano, direttamente o indirettamente, in contatto. È una delle epifanie più belle di tutta la storia della letteratura, che richiama alla mente Proust e le sue meravigliose resurrezioni del passato, il recupero del tempo e della coscienza come unico sistema per riappropriarsi della felicità.