Pane e Cioccolata: il dolce supplizio degli immigrati

Creato il 26 luglio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Quando la sensibilità di essere pensanti ed agenti entra in corto circuito a causa di relazioni esterne al nostro piccolo universo di schemi, uno stato di smarrimento perpetuo sembra attaccarsi al cervello come un mal di testa convenzionale che incastra cultura, società ed educazione: un tormento che gli italiani hanno anestetizzato con la morfina dell’Italianità. Ma in ogni caso la mancanza di corrispondenza con il nostro modo (di credere) di vivere è probabilmente uno dei primi monumenti che siamo forzati a visitare quando muoviamo la mente verso mete lontane. Proviamo ad immaginare ciò che succede quando dobbiamo traslocare con tutti gli apparati e gli organi. Aggiungiamo “in cerca di lavoro”. La necessità può farci negare la nostra stessa natura? Pane e cioccolata di Franco Brusati, mostra i mille volti di un immigrato italiano accompagnato solo dalle fotografie dei cari e dai dialoghi notturni con le lettere che la moglie manda per informarsi sui tempi della sistemazione. Ma questa sistemazione non è affatto facile, perché il buon Giovanni (Nino Manfredi) deve ancora capire la Svizzera e vincere il confronto diretto con un altro immigrato (questa volta turco) per un posto di cameriere fisso in un ristorante. Ristorante che diventa un esame continuo tra efficienza e attenzione, maître di sala e ricchi connazionali che promettono aiuti perché «Se non ci si aiuta tra noi italiani?». È un vortice insomma, incontrollato e rinforzato da atteggiamenti di colleghi fortemente stereotipati che sgraffignano dalla cucina nascondendosi con la coda (di salsiccia) tra le gambe e conterranei che non sopportano gli sberleffi degli svizzeri. Giovanni copre e addolcisce la pillola, forse: «Vattene a Milano e a Torino e vedi come trattano i meridionali».

Anche la sua mediazione però è alquanto difficoltosa e cerca un contatto, inefficace perché l’eccezionalità stessa di non dover fumare in un parco, all’aperto, cancella qualsiasi divieto a lettere maiuscole; prova persino a raccogliere la carta da terra che aveva gettato con meccanismo oleato da anni di pratica, che in Italia vediamo e che da automi non rimproveriamo; e quindi gli unici interlocutori, condivisori di idee, sono come lui, immigrati, italiani e non. E questa terribile incomunicabilità sfocia nell’assurdo, perché perde tutto, tre anni di ricerca di un lavoro, per una possibilità di vita in Svizzera, solo per una foto, bastarda e indagatrice che lo ritrae far pipì per strada: prova inconfutabile, perché c’è il corpo del reato, un muretto, risparmiato prima di lui, anche dai cani. Ma non basta perché tra speranze e timori, treni presi e poi lasciati, senza mare e senza parenti, la necessità deve sempre avere il sopravvento; occorre resistere, perché in fondo, non vuole tornare da perdente. Persino gli italiani diventano pericolosi, e addirittura le promesse dell’industriale plurimilionario (Johnny Dorelli) si afflosciano su se stesse stringendo al loro interno Giovanni sempre meno italiano e sempre più un umano. Da bestiame che vive in un pollaio si tramuta in un borghesuccio biondo e garbato, misurato e svizzero. Fino al gol italiano, quando la misura svanisce e lascia il posto all’Italianità più assoluta: peccato, ha provato, dankeschön. Pane e cioccolata è un film complesso e chiarissimo che dissemina un po’ ovunque pezzi di quotidianità “straordinaria” (nel senso di non ordinaria), che servono per restringere un tema vastissimo e intricato come quello dell’emigrazione-immigrazione.

Che gli italiani in tempi diversi abbiano e stiano vivendo una continua situazione di “travaso” è fatto altamente riconosciuto e talmente intrigato da passare molto spesso come elemento dell’anima italiana: ma se anche noi fossimo diventati svizzeri? O Ospitanti? Giovanni va in Svizzera non con il sogno americano, non cerca un bacino di opportunità, perché i meridionali diventino i padroni. Cerca se stesso, in una vita semplice e nuda. Nuda come la pelle degli svizzeri che, di fronte al pollaio abitato da italiani ridotti a far chiocciare i propri figli come pollame da spennare, si mostrano nella loro intimità senza pudore, perché di fronte non hanno esseri della loro razza ma solo bestiame. Bestiame trasportato su camion e gommoni, senza nome e senza codice. È troppo. E di fronte a ciò non si è neppure più umani; non sprechiamo termini come svizzeri, italiani o africani. Chiamiamoci tutti clandestini del mondo. Chiarchiaro, ne La Patente di Luigi Pirandello, perseguitato dalle malelingue che lo definiscono iettatore, decide di farsi convalidare tale potere, così temuto, ancora, anche da chi smanetta con iPhone e affini, da un giudice che non può che dare atto dello sfracello in cui è precipitata la vita. Giovanni, trascinato con forza all’ultimo treno per l’Italia, getta carte per terra e palpeggia le donne che si girano indignate. «Mi scusi m’è scappato, so’ italiano». È finita, anche lui indossa la maschera che chi gli sta intorno immagina che abbia. Maschera che vedono persino gli italiani. E poi succede che si rende conto che non ci basta il sole, che non ci è rimasto il mare e neanche una canzone per cantare; che «è tutta la vita che ci fregano con la chitarra e il mandolino» e ancora cantiamo. Che, insomma, siamo davvero diventati animali.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :