Panorami sonori – Roma, Piazzale Augusto Imperatore. Martedì di carnevale

Creato il 22 febbraio 2015 da Thefreak @TheFreak_ITA

- Quann’è che fa a festa Paola? – Mo, er dodici. – Er dodici de che? –E de che, Marietto, er dodici de marzo.

- E d’i tronchi, chi ci l’ha purtati, là sopra? –L’acqua, Ro’, chi ce li doveva purtare? – No, Martì, nun ti sporgere, a mamma, Martina, veni ca’!

- Sì, quindi che t’o dico a fa’? Eh, nun me fa di’ sempre le stesse cose, ce devi prova’! Sì, t’ho capita, ma te stai a preoccupa’ troppo.

Eco prolungata di sirena, risponde una sirena dall’altra parte dello stradone. Un rombo di motocicletta, un clacson, poi in una tutte le autovetture si muovono, processionarie compatte, formiche in riga. Sopraggiunge la sirena, strepita lei soltanto, poi grugnito di motore concorde, a tratti opaco, istantaneo, sommesso. È verde, il rumore rimonta, statico, difforme, la processione di ferro si blocca. Piedi attraversano lo stradone, in senso opposto, si scansano, pretendono, ritornano e dileguano. S’accresce il rombo, stonato e stride, i piedi si affrettano, clacson, via alternato, ultimi piedi, primi motocicli, motori e clacson.

Poco più in là, l’acqua, con migliaia di chiassose gocce che scivolano tra loro, o su opaco travertino, scorrono in una stretta canaletta, scompaiono per ricadere lungo la pietra, o più giù libere nell’aria, tra scalini battuti da piedi, da zampe; poco più in là il ferro si alterna, in chiasso fermo o mobile grugnito più mesto.

Di fronte, la teca vitrea e bianca, con dentro l’Altare della Pace, fermo, immobile. Prima ancora di guardarlo, conviene attraversare, per evitare di venire bloccati dal corteo storico che attraverso via di Ripetta fa ritorno sul Corso, tagliando per la breve via Tomaselli. Ed ecco, il piazzale. Si guadagna, scivolando lungo la teca, per pareti di cristallo e bianche, accompagnati dalle Res gestae del divo, il lato dalla parte di piazza del Popolo, da cui la sfilata storica non passa: si riesce, così, a camminare al centro della carreggiata, essa stessa piazzale.

Ci si volge, finalmente, in osservazione: un vastissimo spiazzo dilatato, con un fulcro focale, il compatto rudere dell’Augusteo. Ai lati, Titani, palazzi di travertino e mattoni. È una metafisica cortina porticata, neoclassica, lineare, sicura e netta, dal lato di piazza del Popolo, dal lato del Corso. A brevi tratti, da dietro le quinte di alcuni edificî – la si segue a stento, eppure la si percepisce – sta la città, che sporge sul piazzale, esautorata. Più su, segnano l’orizzonte baldanzose cupole; poi, di lontano, ingenue terrazze su torri di laterizî, a riempire una appena accennata riga nerastra, medievale.

Questo il quadro, dal 1942. Allora terminavano i lavori di quel particolare intervento urbanistico e architettonico che venne definito Sistemazione di piazza Augusto Imperatore. Centoventi edifici, posti in un’area di 27.000 mq., furono distrutti a partire dal 1934, insieme all’Auditorium che sorgeva sui resti del Mausoleo di Augusto. L’incarico del progetto fu affidato a Vittorio Morpurgo (ebreo, cambiò il suo cognome in Ballio), il che significa dire razionalismo italiano, dunque Piacentini: la dilatazione dello spazio è figlia dell’avanguardia futurista della velocità.

Ci si immagini, nello stesso punto, non a spasso, ma su una macchina: lo sguardo è rapido (il che non significa disattento), e a tale rapidità deve corrispondere una spazialità il più possibile ampia, sgombra. Ne risulta che il rudere non può più essere rovina, mausoleo, tomba, bensì frammento della romanità, evocazione dell’antico ideale di grandezza.

La piazza diventa, così, un teatro il cui palcoscenico è il monumento, e fondale scenografico gli edificî porticati tutt’intorno, che con travertino, mattoni e terrazze che sfondano il cielo rappresentano la sintesi del razionalismo col classicismo.

Ma noi non si ha macchina, e lo sguardo scivola lento. Dalla parte di via di Ripetta ci spostiamo verso il Corso, osservando i palazzi porticati. Una schematica teoria di finestre si eleva per tre volte sul diafano portico, sotto cui, tra tavolini in vimini e qualche pianta ornamentale, stanno signore che fumano, un cameriere, qualche paio di uomini distratti. All’angolo, una fonte asciutta sotto una altisonante epigrafe, latina, che non occorre decifrare per comprenderne il gridato vigore retorico, provinciale. Sopra, colorate figure musive, che mai ci si aspetterebbe in tanto nitore classico (avvezzi a frequentare rovine scolorite dal tempo, quindi monocrome), allegorie di regime, migliaia di tessere relegate lì in alto, ignorate. Dal basso, si è quasi sagome che camminano in Piazza d’Italia di Giorgio De Chirico, ma lì, oltre alla metafisica, alla spazialità, alla contemplazione, c’è solo il silenzio.

La sfilata storica carnevalesca si sta assestando nel tratto di via di Ripetta che oltrepassa il piazzale, e il rimbombare dei tamburi sbatte di facciata in facciata, passa sotto i portici, risale alle finestre, si perde nel vasto spazio, fra i cipressi abbarbicati sul mausoleo, quando già rimontano successivi rimbombi. È un marziale ritmo che ben si accoppia con quella vista e può confondere, illudere. Ma l’occhio si posa sulla impudica epigrafe, dalla parte del Corso, che campeggia al centro del portico. Il suo italiano, che troppo dice rispetto al ritegno di quelle latine, qui si fa sboccato: popolo italiano, immortale, trova sempre una primavera, per speranze, passione, per la sua grandezza. Passa un giullare smarritosi dal gruppo in maschera. Tamburi, bandiere di là dall’Augusteo: ecco la carnevalata.

Poco più discosta, la statua di un santo ci ricorda che quelli erano gli anni successivi al concordato. Ma l’estetica di regime estende anche a questa i suoi canoni, perché Sant’Ambrogio è sacerdote pagano (se non laico), vestito con paramenti squadrati, d’ambiente. Al confronto, il San Carlo Borromeo all’angolo del piazzale pare lui pure vestito per carnevale, in molli sete del Cinquecento. Entrambi li falsa uno sguardo verso l’altro, qui fuori luogo.

Dietro, sorgente dalle pietre natali, la gigantesca abside della chiesa dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso si svela in tutta la sua mole. Celate un tempo dal vicolo degli Schiavoni, tra case e scale medievali che s’avvinghiavano loro d’intorno, le spalle del monumento sono oggi violate e mostrate all’occhio dell’osservatore lontano. Non si è spinti a guardare in alto, ma per moto proprio quelle linee che non celano ormai più niente si inerpicano nel cielo romano, si sommano e si allargano, sino a tracciare un largo tondo, che poi una invisibile mano riannoda insieme, nel punto più alto: è la terza cupola dell’urbe, ma l’unica di queste dimensioni in tutto il Campo Marzio, e si noterebbe essa sola, se dalla terrazza del Pincio non si avesse di fronte la prova della divinità dell’uomo, che si mangia il cielo dall’altra parte del Tevere.

Ci si trova, ormai, nella parte meridionale del piazzale. Delle lamiere di ferro serrano un ingresso, con sopra scritte, manifesti, necrologî. Davanti, macchine. Dietro, mattoni romani, il presuntuoso bianco della teca, mattoni del Novecento, calcestruzzo dei peggiori anni Sessanta. Il proprietario di un ciclomotore lascia cadere una catena a terra, che cozza forte. Oltre la strada, passi, tamburi, megafoni. Seguendo una lunga fila di motocicli, si passa a stento accanto a reti in metallo, e si giunge in un atrio porticato, che collega il piazzale con via Tomacelli, ove imperversa carnevale: volte nere, con lanterne squadrate e nere, qualche ornamento annerito. Poi, volgendosi stancamente verso il piazzale, accade qualcosa di inaspettato: il lungo corridoio che si addentra nelle viscere del mausoleo non è in asse con il portico, per come invece dovrebbe, essendo questo l’ideale ingresso al piazzale. Sì, proprio così, dopo tutto il Quarantotto che ha sconvolto l’area, l’ingresso è risultato decentrato. Ma il fastidio dura poco: la tomba della famiglia imperiale giace in fondo alla piazza, che frana ad ora ad ora con i suoi sampietrini, con il suo selciato, di almeno tre metri. Lì giù due ragazzi di colore rimestano alcuni tessuti dentro azzurre sacche di plastica, in silenzio. L’uno si allontana, l’altro entra nel sepolcro. Un pittore, tra i motocicli, dipinge.

«Dirò subito che a mio parere l’attuale nobilissimo uso del monumento va mantenuto, sia perché altrimenti nel centro di Roma si avrebbe un informe rudero, sia principalmente perché solo così si può sperare di avere tutti i mezzi occorrenti ad una sistemazione che ne garantisca la conservazione e ne permetta lo studio». È Giglioli a parlare, archeologo che aveva intrapreso ricerche di notevole importanza nell’area dell’Augusteo, e che quando ricorda il «nobilissimo uso» si riferisce alla funzione che svolgeva dal Settecento l’edificio, ossia sala di musica, Auditorium. Sulle possenti mura, inserite in una trama urbanistica stretta e congestionata, si istallavano infatti palchetti, platea, loggione e volta affrescata della sala di musica della città, nota con i nomi di Anfiteatro Correa (o Corea), Auditorium Umberto I o Augusteo. La sua gloriosa attività si interrompe il 13 maggio 1936, con l’ultimo concerto. In realtà, nell’intendimento di Morpurgo, l’edificio che dà su via Tomacelli, perpendicolare al Corso e (quasi) in asse con il Mausoleo, doveva ospitare lui stesso l’Accademia Filarmonica, con un nuovo, moderno, Auditorio; e il carattere monumentale dell’edificio dichiaratamente espresso da un’amplissima scalea, anch’essa in travertino, con statue e bassorilievi, da cui si sarebbe discesi fino al livello del mausoleo. Resta un edificio sgraziato, che fronteggia un rudere, con il piano stradale che frana. Frattanto, un leitmotiv di rombi e sirene e tamburi.

Due archi ribassati, in laterizi, con alla sommità una copertura in intonaco arancio e prese d’aria in metallo, collegano le due chiese di san Rocco e di San Girolamo degli Illirici (o degli Schiavoni, nome con cui si indicavano gli abitanti dell’area che va dall’Istria al Montenegro). Non si passa lì sotto, sono transennati, e miseri ambienti squadrati sostituiscono i grandi istituti religiosi smantellati per la sistemazione del piazzale.

La sfilata storica è passata, solo l’odore acre dei cavalli rimane, e un sole rossastro, al tramonto, sbocca dalla parte dei Prati.

Un popoloso deserto di individui, con telefoni in mano, camminano a testa bassa sul ponte Cavour. Giù, sotto i muraglioni, dalla parte del Campo Marzio, non c’è spazio per camminare, e tonnellate di pietra abbracciano la città a protezione dell’acqua piatta, scolorita e lenta. Non vociare di barcaioli, non piccoli bastimenti, né più è navigero quel tratto di fiume.

Ripetta, il porto-teatro, sventrato da un ponte. Su un autobus in fuga, compresso e viziato, il sole sbatte più rosso.

di Valerio Tripoli


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