PANTA REI : vita (nuova) per acqua

Da Dedalus642 @ivanomugnaini

PANTA REI

Dulce et decorum est pro patria mori. Noia e studio, lingue morte e vive, anni di scuola, la testa immobile sui libri, placidamente perduto, sconvolto ma tutto sommato al sicuro, ed ora, là fuori, la morte bussa ed io non so che fare.
Loro sono e restano granitici, imperterriti. Sanno come agire, cosa pensare e cosa non pensare. Manganellate, fucilazioni, rastrellamenti, petto in fuori, una mano fiera sui testicoli, uno sguardo gelido e avanti, un’altra risatina e via al bar a farsi una briscola e a scolarsi un grappino. E io qui a rimuginare frasi in una lingua morta e a riflettere sull’etica della violenza. Cazzate! Li ho visti, giù alla curva davanti alla vecchia miniera. Li ho visti con i miei occhi fucilare sei ragazzi di vent’anni. La colpa? Avere un’idea. Il grave per loro non era che l’idea fosse opposta, contraria, ma che esistesse, che avesse forma, corpo, pensiero. Il sole spietato d’agosto e l’odore del sangue. Li ho visti. Li ho ancora nella mente. Un attimo scolpito nelle braccia, nella fronte, nelle costole.
Avrei dovuto essere là anch’io, indossare la camicia di quei ragazzi trucidati e macchiarla anche con il mio sangue. Io che non amo far male neppure ad una zanzara per esistere ora devo uccidere o essere ucciso. Il gioco della vita è questo: ora, per vivere, devo morire. Morire o cercare il mutamento che può ridarmi la vita attraverso la morte. La loro.
Ho una donna. Quando poso la testa sul suo seno e le mie mani scivolano sulla pelle liscia delle sue cosce non c’è guerra, la vita non odora più di morte. C’è solo il profumo di lei, il suo sudore caldo, la saliva, la linfa.
“Se muori fai morire anche me. Non andare”, mi ha detto.
Forse ha ragione. Non vale la pena morire per questo paese. Le ingiustizie cambieranno colore un giorno, ma io resterò straniero, escluso, al di là del fossato e della rete di recinzione. Che duri finché deve durare. Niente è eterno. Anche l’Impero Romano sembrava infinito, poi, un giorno, si è sgretolato, sfarinato, disciolto come neve al sole. Passeranno anche loro. Non darò la mia vita per questa patria. La mia patria sono io. È lei la mia patria, Monica, l’amore, l’affetto sincero.
Morire per un mondo come questo? No. Anche il mio, ne sono certo, non è perfetto, non è ideale. Ma è mio. È diverso, lontano dal loro. Troppo lontano. Qui, in questo posto non farei mai nascere un figlio. Dargli la vita qui, hic et nunc, sarebbe qualcosa di più crudele di una beffa mortale.
Una beffa. Come questa pioggia, l’acqua che prende a cadere, ironica e tenace, proprio ora che avevo in progetto di uscire per respirare un po’ d’aria e un po’ di sole. Resto qui invece, davanti a questa finestra spalancata a bagnarmi la faccia e i capelli, ad annegare i pensieri e a salvarli uno ad uno su sponde salde di sorrisi. Penso alle settimane, ai mesi interi in cui l’afa ha dominato incontrastata. Assorbe la carne l’afa, risucchia le energie, la volontà. Beve e risputa sull’asfalto infuocato perfino la speranza. Pensi che sarà sempre così, arrivi a concludere che è tutto assurdamente necessario: è così e non può essere diverso da così. Poi, un pomeriggio come tanti, un granello di polvere si fa più scuro e un altro accanto a lui si colora, muta, respira.
Mi sbaglio. Adesso lo so. So che la logica che custodisco dentro come uno zelante carceriere è peggiore della follia. Ne ha diritto. Il figlio che sogno un giorno deve avere una possibilità. Quello che appare impossibile deve poter provare a mutare di segno, deve poter scommettere di esistere in modo diverso. Devo lasciare spazio a mio figlio, spazio e tempo, anche di sbagliare, di fare i suoi errori, ma in un mondo libero, che magari, tra dieci o cent’anni, saprà fare equo, vivibile, solidale.
Giù al fiume c’è un ponte. La vita si agita, incalza, cerca di scorrere, di scivolare in avanti, anela al panta rei. Loro lo bloccano, fanno da argine all’espandersi del mondo nuovo, allo straripare dei partigiani nella pianura, verso Reggio Emilia. Da giorni decine di ragazzi provano a forzare il ponte ma è tutto inutile. E’ imprendibile, l’unico risultato finora è una lunga catena di morti falciati dalla mitragliatrice.
Noi siamo gli studenti, quelli che masticano latino e greco, quelli che stanno nei bar a cazzeggiare, a parlare di filosofia, di Bakunin, di Lenin, di Trotskij, quelli che non hanno mai preso una vanga né un fucile in mano. Siamo quelli che durante le battaglie stanno nascosti in cantina a sussurrare sogni di rivoluzione timidi e ciechi come pipistrelli. Siamo quelli che si riempiono i polmoni di parole grosse ma sussurrate sottovoce come in chiesa. Quelli che tremano al pensiero di esser visti, denunciati, interrogati e presi a bastonate nelle costole e sulla testa. Siamo sempre e solo noi, i perditempo.
Sono andato al bar oggi, dai vagabondi come me. Ho parlato della mia donna e di mio figlio. Quello che non ho. Quello che non ha me, quello che un giorno nascerà dal mio sangue, quello che forse avrà solo la sostanza di una chimera. Ho parlato della mia donna e di mio figlio ai compagni. Oggi facciamo una chiacchierata diversa, noi smidollati. La andiamo a fare all’aperto, davanti al fiume. Ci siamo guardati ed abbiamo deciso, piangendo, ridendo, urlando per una volta, tutti insieme. Insieme, per una volta, tutti quanti.
Un fucile ce l’abbiamo, una moschetto, una doppietta, va bene qualsiasi cosa. Un’idea, ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Un’idea valida. Nascosti nell’erba alta col fiato trattenuto cerchiamo un’escamotage. Farci massacrare subito servirebbe a poco. Uno di noi deve andare là disarmato e distrarli, deve lasciare agli altri tempo e modo per aggredirli a sorpresa. Giorgio parla tedesco, suo nonno era austriaco e lo ha ospitato per mesi su nel Tirolo. Andrà lui. Si rifiuta però. Propone di far scegliere la sorte. Nessuno vuole andare, tutti dicono di voler agire, tutti dicono di voler sparare. In realtà ciò che vogliamo davvero è scamparla: sappiamo bene che chi sale sul ponte disarmato durante il conflitto a fuoco sarà spacciato, è già, fin dal primo momento, un morto che cammina. Decido di andare io. Anch’io parlo un po’ di tedesco in fondo.
Percorro i primi metri con le gambe leggere, inconsistenti. Sento solo un martellare insistente all’altezza degli zigomi. Il resto del corpo è aereo, impalpabile, è come se se vedessi e sentissi me stesso camminare al mio fianco. Cerco di far comparire sulla faccia qualcosa di simile a un sorriso e mi avvicino ai soldati di guardia. Chiedo la più banale delle informazioni, la strada più breve per arrivare ad un paese vicino. Facciamo qualche metro insieme, poi, nel momento in cui mi voltano le spalle, prendo a correre a perdifiato verso la postazione della mitragliatrice. Il fattore sorpresa mi concede istanti preziosi. Corro ad occhi semichiusi. I colori si confondono con i suoni e gli odori. Tutto si ingigantisce e si fa vivido, il mondo per qualche passo è dentro di me, ne colgo il mistero, la chiave, la direzione. Fino al momento in cui il primo sparo mi lacera i vestiti e la carne, un taglio netto, profondo, un dolore che afferra le gambe e le trattiene. Il sangue cola lento e denso sul fianco. Posso ancora muovermi però, ne ho ancora la forza. Sono a pochi metri dalla mitragliatrice, schivo una raffica buttandomi a terra e mi scaglio addosso al soldato che mi spara contro. Lo immobilizzo con un abbraccio disperato quindi estraggo il coltello e glielo affondo nel petto fino all’ultimo centimetro. Solo adesso riesco a guardarlo. È un ragazzo della mia età. Il suo sguardo di terrore esterrefatto è fisso nella mia testa. Chiude gli occhi lentamente, divorato dalla morte. Li chiudo anch’io, serrati dal sudore, dalla paura, dal frastuono degli spari, dal desiderio di quiete. Sotto di me l’acciaio fumante della mitragliatrice e il corpo del ragazzo, le gambe e le braccia in una posa grottesca, un Cristo in croce di qualche pittore minore, una figura sospesa nell’estasi tragica di una macabro presepe.
Rimango fermo, abbracciato alla morte finché non si spegne l’eco dell’ultimo degli spari. Rialzo la testa di qualche palmo, in tempo per vedere le braccia dei compagni levate al cielo, in tempo per sentire urla di gioia che attraversano i campi e le strade. Il ponte è libero. È nostro. La prima volontà, l’istinto immediato, è quello di distruggerlo. Pensiero tanto assurdo quanto prepotente. Prevale presto la ragione, la consapevolezza che è un bene prezioso, da proteggere ad ogni costo. Un paio di settimane dopo, dal nostro ponte, transitano le truppe alleate. E noi con loro, fino in fondo, fino alla sponda più estrema, verso la città, verso la gente.
L’acqua scorre, ora. La vedo ancora rossa di sangue, il loro e quello dei compagni. Ma si muove, è libera, vola verso il mare. E’ valsa la pena. L’acqua potrà tornare limpida, tornerà a vivere.
Dall’acqua scorre il tempo, l’avvenire. Il cielo è caldo adesso, nei polsi e nel petto c’è il tepore di un respiro che abbraccia l’orizzonte degli anni. Riapro gli occhi. La playstation di mio nipote spara sibili elettronici come una mitragliatrice. Vorrei raccontargli la mia storia, vorrei dirgli di quei giorni, dei boschi, delle montagne, della paura, del coraggio, delle attese. Vorrei dirgli tutto, ma forse faccio bene a tacere. Non è stata un videogame la mia vita, è stata sangue e fremito al cuore, stretta violenta di realtà. Non capirebbe. Riderebbe sarcastico per qualche attimo, si farebbe una sbuffata e accenderebbe lo stereo.
Apro la finestra e ascolto il suono dell’aria. C’è ancora il profumo e il ritmo della pioggia. Piove ancora, come quel pomeriggio lontano della mia gioventù, la stessa acqua, la stessa musica sulla terra e nella carne, la stessa forza, la stessa speranza. La vità è uguale, nel profondo, identica a se stessa. Anche oggi i ponti della libertà sono occupati e presidiati. Da loro. Gli stessi, a ben vedere. L’oppressore muta divisa ma non gli occhi, non le braccia, le astuzie, le trappole. Anche mio nipote, con la sua playstation eternamente in funzione, con il suo videofonino sempre in mano, deve correre sopra un ponte a petto nudo contro piombo e fuoco, contro assurdità e ingiustizia.
Posso raccontarglielo. Posso rivivere con lui la mia storia, la storia di un uomo. Posso aiutarlo a correre. A correre anche per me. Anzi, posso fare di più. So parlare la sua lingua, se voglio. So parlare anche la loro, quella del nemico, dell’oppressore. Insieme, io e mio nipote, possiamo fregarli. È ancora possibile, correre, vivere, respirare, mettere a tacere la loro mitragliatrice, acciaio di falsità e ipocrisie. Sì, è ancora possibile. Altra acqua, libera davvero, può aprire la strada alla primavera.



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