Ieri sera ho assistito a un piccolo ma superbo monologo teatrale, presso un centro ricreativo-culturale della Bologna 'come-si-deve', come la chiamo io, quella cioè che si acquatta tra portici e cortili aperti dove la gente prende freddo nell'attesa di fare ingresso e assistere a 'qualcosa', ballando da un piede all'altro, sorridendo, coltivando aspettative. Un 'qualcosa' solitamente di liberatorio, informale, poco istituzionale magari, ma pregno di significati che l'offerta televisiva e quella dei teatri snob si sognano. Tutto questo alla faccia della globalizzazione e della speculazione edilizia. Il monologo si chiama 'La rinvincita del calzino spaiato - pensieri di una mamma precaria' per la regia del Teatro della Rabbia, testi di Francesca Sanzo estratti direttamente dal suo blog: Panzallaria.
Ora, mi tocca precisare che io non sono un critico teatrale e nemmeno uno di quei maitre-à-penser le cui opinioni fanno scuola, ma ieri mi sono divertito. I testi di Francesca ruotano intorno alla sua condizione di mamma, ma prima ancora di donna, ma prima ancora di cittadina vitale e pensante che non ha obliterato quest'ultima versione di se a vantaggio esclusivo del lieto av-vento della figlioletta Silvia; e questa verità semplice semplice - cioè che una donna, al giorno d'oggi, non smette di essere una persona dal momento che ha messo al mondo la prole - suona perfino controcorrente nella nostra Italia vagamente reazionaria. Considerazione paradossale, se pensiamo a quanta acqua è scorsa dalla rivoluzione femminista e se aggiungiamo che sono di sovente le stesse donne a trasformarsi in martiri, o come direbbe Panzallaria in 'Talebane' della maternità. La Nostra ci insegna che ironia, intelligenza, leggerezza non smettono di appartenere al genere femminile se sopraggiunge un bambino a mettere a soqquadro lo spazio domestico ed emotivo, che la gioia della maternità può essere tale sempre, e che questa gioia non si deve trasformare in ossessione da pappetta, aerofagia, passeggini, eritemi e ogni piccolo dettaglio della vita del poppante che cementa una tragedia quotidiana. Mi scuso con tutte, naturalmente, perché so niente di niente anche di maternità. Faccio una testimonianza de relato, a mio avviso molto attendibile e molto consolatoria, in base a quanto udito ieri dalla viva voce di una giovane attrice che recitava i testi di Francesca. Quest'ultima è una grande blogger, migliore di me. Sa quello che vuole comunicare, la straordinaria bellezza di una vita di giovane mamma bolognese in compagnia di un uomo che la fa sentire amata e libera; e il desiderio di trasformare questa condizione in opportunità creativa di comunicazione con il mondo, attraverso una serie di aneddoti esilaranti ed estremamente pedagogici su vacanze, pappette, mamme fissate, suoceri ultra premurosi, peluches e perfino fantasmi di bambini che si manifestano nelle radioline anti-pianto (Francesca e Stefano: quest'ultima cosa me la dovete spiegare bene...). Il suo stile letterario - e qui arriviamo in territorio più vicino al mio - è colto, ironico, frizzante e ricco. Perfettamente funzionale a farsi leggere in un blog e raccontare in un teatro. E quanto ai temi, oltre a quelli testé citati, non mancano bellissimi passaggi sulla Bologna che è stata, come il ricordo del vecchio cinema Apollo. Benché conosca poco questo passato illustre e socialmente salvifico, perché provengo da un altro pianeta, ne ho una coscienza riflessa, frutto di rispecchiamenti attuali e racconti di amici. Ma è già molto per invidiare i bolognesi doc che hanno avuto l'opportunità di gustarsi tale universo di biasannot e polemisti goderecci di cui, a quanto pare, si certifica l'estinzione. Francesca suggella questo mondo nei suoi ricordi, e lo perpetua nel suo personale di oggi, attraverso un'interpretazione del ruolo femminile molto moderna, molto complice, molto inclusiva.
Insomma, molto bolognese.