Pao-tzu, ovvero di cucina cinese e di divagazioni nostalgiche

Creato il 21 gennaio 2014 da Dede Leoncedis
Molti, ma proprio molti anni fa, insieme alla mia inseparabile amica Eva, avevo seguito ben due corsi di cucina cinese; se non ricordo male non era ancora  nata la mia seconda figlia,  controllerò non appena  mi tornerà   in mente dove  sono andati a finire gli attestati che per qualche tempo  avevo con molto orgoglio appeso in  cucina. A  ripensarci adesso sembra preistoria: i ristoranti cinesi erano una rarità che ci appariva il massimo dell'esotismo più raffinato. 

All'epoca c'era chi scambiava  per portagomitoli  quei graziosi cestini di bambu che si cominciavano a vedere in qualche vetrina di casalinghi
 
e nessuno, ci metto la mano sul fuoco, nessuno, aveva ancora fatto caso alla stretta connessione tra l'involtino primavera e la puzza di fritto nei capelli. Così, appena avevamo saputo dell'esistenza di questi corsi ci eravamo iscritte.  Le lezioni avvenivano nelle cucine di un ristorante  piuttosto elegante, e le prime volte fu piuttosto sconcertante doversi destreggiare  tra le  chiazze d'unto sul pavimento. Ma dato che ci si abitua a tutto, dopo un paio di lezioni eravamo diventati   abilissimi  nell'individuare i pochi  francobolli di spazio libero da gusci d'uovo e bucce per appoggiare il taccuino degli appunti.  Però il  nostro insegnante/cuoco era bravissimo e mi mangio ancora le mani quando penso che gli ho visto  davvero fare gli spaghetti come in questo video e l'idea  di scattargli una foto non mi ha nemmeno sfiorata

Capire   cosa stesse dicendo  era un'impresa,  scambiava  la erre con la elle  come i cinesi delle barzellette,   però quando abbiamo finalmente realizzato  che   uno pecchieie  felina voleva dire   un bicchiere di farina è stato come decifrare la stele di rosetta e da lì in poi non abbiamo più avuto bisogno dell'interprete. Non ci ha insegnato soltanto a cucinare dei piatti  ma ci ha spiegato l'accostamento dei sapori e ci ha fatto capire che  in un  menu cinese non esistono  primi secondi e contorni. Ora sembrano cose di poco conto  ma all'epoca era una piccola rivoluzione che ci aveva permesso di sorprendere gli amici  che venivano a cena da noi e con il minimo sforzo  ci aveva regalato l'aureola di grande cuoca

Ci aveva anche insegnato il segreto  per laccare la pelle dell'anatra:  basta separare  la pelle dal corpo,  prendere un grosso imbuto  riempire lo spazio tra pelle e carne di acqua bollente  e appendere poi il tutto  all'aria per ventiquattr'ore prima di procedere alla preparazione vera e propria e alla  cottura. Non ci voleva niente secondo lui,  ma io nel dubbio non mi ci sono mai cimentata.

Le crepes cinesi che solitamente accompagnano l'anatra laccata  invece si, un paio di volte ho provato a farle. Il procedimento è di una semplicità disarmante: si impasta  la farina con l'acqua fino a farne una palla, si mette sulla fiamma   una padella di ferro e, quando questa è ben bene arroventata,  con la mano sinistra  si appoggia la palla sulla padella. Un sottilissimo velo di pasta dovrebbe restare attaccato alla padella e in un nanosecondo la prima crepe dovrebbe essere cotta a puntino.  Credo sia chiaro il perché  dopo due tentativi io abbia capito che per me non era cosa.

Molto meno complicato,  e per di più foriero di grandi soddisfazioni, il procedimento per  preparare i pao-tzu,  quei pani cinesi cotti al vapore di cui l'altro giorno  una mia  amica   cercava la ricetta, e che hanno dato la stura a questa  nostalgica divagazione.
P.S. Non trovando più gli appunti presi tra gusci d'uova e bucce  ho passato allo scanner un paio di  versioni della ricetta di questi pani.  La prima proviene da questo libro pieno di splendide foto e pubblicato  nel 1986


La seconda   è presa da qui. Il libro è stato pubblicato nel 1975 e gli sono molto affezionata perchè  è stata la mia prima bibbia in materia