Colei che fu considerata una delle più originali voci della nostra narrativa del primo Novecento è completamente dimenticata, nonostante che le sue opere abbiano resistito all’usura del tempo.
Nata a Castelfranco Veneto il 4 gennaio 1876, morì a Padova, dove si era stabilita dopo la morte del marito, il giorno del suo compleanno il 4 gennaio 1938. Nel corso della sua vita pubblicò novelle ed elzeviri sulle maggiori riviste e sui maggiori quotidiani del tempo, tra cui “Nuova Antologia” e il “Corriere della Sera”. Questi i suoi libri: le raccolte di racconti “La fortuna”, 1913; “Codino”, 1918; “La signorina Anna”, e infine i due romanzi: “Fine d’anno”, 1936; e “Maria Zef”, sempre del 1936. Quest’ultimo ebbe altre ristampe nel 1946 e nel 1953. Da esso furono tratti due film, nel 1953 dal regista Luigi De Marchi, e nel 1981 dal regista Ottavio Cottafavi.
Una scena suggestiva apre il libro: un carretto carico di mercanzia si muove lungo l’argine del Piave, su di una strada fangosa. È trainato da una robusta e bella ragazza, Mariute (chiamata più spesso con il diminutivo di Mariutine), di tredici, quattordici anni; con il braccio appoggiato ad una delle stanghe sta la madre Catine, “logora e malandata da sembrare decrepita”, e mischiata alla mercanzia (mestole, cucchiai, scodelle ed altri oggetti simili, tutti fatti in legno) dorme la più piccola di cinque o sei anni, Rosute. Dietro, trotterellando, li segue il loro cagnolino Petòti.
Siamo nella Carnia, e i personaggi che incontreremo sono soprattutto montanari, con leggi e abitudini antiche. Il linguaggio con cui conversano di tanto in tanto è il friulano, meglio ancora: “un dialetto aspro, tronco, quasi incomprensibile.”
È un anno di magro raccolto a causa tanto della siccità quanto delle grandi piogge successive, e la mercanzia è quasi intatta, nessuno compra poiché “c’era solo miseria in giro; miseria e acqua”. Sono scese dai monti e la notte dormono come e dove possono, spesso nelle stalle in mezzo agli animali. Durante questo viaggio, la madre muore.
La Drigovive al tempo della Deledda, della Serao, di Ada Negri, per fare solo i nomi di tre donne che le furono contemporanee, e la sua scrittura disegna gli stessi ambienti di povertà e di primitivi sentimenti. Taluni suoni di tipo romantico, caratteristici di quegli anni, le accomunano. Non si dimentichi, inoltre, che nel 1916 era morta Carolina Invernizio, a testimonianza di un periodo della nostra storia letteraria in cui le donne ebbero un ruolo di primissimo piano.
In particolare, in questo romanzo, il candore e l’innocenza di Mariutine si mescolano alla cupa arretratezza di un ambiente nutrito dalla paura, dall’ignoranza, dall’egoismo e dalla diffidenza. Sarà proprio un tale confronto il centro e il motore della storia.
Le due piccole, infatti, rimaste improvvisamente orfane (il padre, Gaspari Zef, era morto in America), si troveranno presto a fare i conti con la loro giovane età e con la loro inesperienza.
Tornate sulla montagna (belle le pagine che descrivono questo ritorno), vivono con lo zio Giuseppe Zef, chiamato Barbe (che nel dialetto significa, appunto, zio), “un uomo di pel rosso, dalla faccia coperta di lentiggini, dall’aspetto un po’ ottuso.” La loro casa, situata nell’alta montagna, è una baita “tra le più misere e nude”.
Nella descrizione del cammino che, con lo zio, le bambine compiono per tornare alla montagna, dove riprenderanno il loro lavoro di pastori e carbonai, la scrittura della Drigo si adorna di un accento gotico ingentilito dalla delicatezza e dalla magia come di una fiaba. Così si legge a proposito del “Bosco Tagliato”: “Di sera, la sinistra ceppaia sembrava un’adunata di nani difformi emergenti a mezzo petto dalla terra, immobili, eppure come tormentati da un tragico vento; di giorno, il luogo era squallido, di uno squallore malinconico e deserto, battuto atrocemente in pieno sia dal sole che dalla pioggia.” L’aspro paesaggio che li circonda in piena notte, prima illuminato dalle fiammelle accese nei paesi che incontrano, poi immerso nel buio, pare avvolto dal calore di una consuetudine degli uomini alle modulazioni e ai mutamenti lenti e silenziosi della natura.
Il ritmo asseconda lo scandire dei passaggi che misurano i luoghi e il tempo.
Ripresa la vita di tutti i giorni, con l’assenza della mamma Mariutine prende le redini della casa. Non vuole che lei e la sorellina vivano a carico dello zio, vuole pagarsi in qualche modo l’ospitalità. A poco a poco sa far fronte ai suoi compiti, nonostante non abbia ancora quindici anni.
La nuova esperienza acuisce in lei i sensi, stornandola dalle fantasie dell’infanzia. Si accorge che intorno tutto è profondo silenzio e solitudine. Passano interi inverni senza che qualcuno venga a bussare alla loro casa.
Qualche volta pensa a Pieri, il ragazzo incontrato sul treno che la riportava a casa e che aveva fatto il cammino con lei portandosi sulle braccia Rosute, risparmiandole tanta fatica. Era un ragazzo simpatico, allegro, buono. L’avrebbe mai più riveduto? Le aveva detto che sarebbe partito per l’America e che prima di quel giorno sarebbe venuto a salutarla.
La Drigosottolinea questa lenta maturazione in donna della ragazzina che abbiamo conosciuto quando trainava il carretto giù nella pianura. La morte della madre ha spalancato davanti a lei una realtà indifferente, se non cinica e ostile. Dentro le crescono le fantasie e i sentimenti tipici delle ragazze della sua età, ma non può coltivarli, poiché intorno a lei non c’è alcun segno di tenerezza e di amore: “La notte precipitava dopo poche ore di luce; il torrente aveva una piccola voce roca e rabbiosa che pareva chiamare dispettosamente le grandi piogge d’autunno.”
Quando Pieri inaspettatamente viene a salutarla, dice che non può fare a meno di partire, finché è giovane (ha diciannove anni) e può tentare di costruirsi la sua fortuna, di raggranellare, cioè, un po’ di soldi per ritornare e comprarsi una casa e un campicello: “Per avere un boccon di pane qui, bisogna stentar tutto l’anno, privarsi di tutto, battersi col bosco, colla neve, colla montagna, coll’estate che arriva troppo tardi e coll’inverno che arriva troppo presto”.
Dove vive Mariutine – ci fa capire l’autrice – si è soli a combattere le asprezze della natura, l’uomo isolato in montagna non è lo stesso che vive in pianura o nei paesi, sia pure poveri. Lo anima un istinto primordiale, legato alla paura e alla ossessione animalesca di difendersi e di considerare gli altri nient’altro che dei nemici.
I piccoli segni di una felicità che potrebbe, anche in quei luoghi selvaggi, essere raggiunta, presto svaniscono. Quando Mariutine e Rosute accompagnano per un tratto Pieri e tutti e tre si mettono a cantare, la Drigoscrive: “Le voci giovanili sparivano nell’aria senza che nessuna eco rispondesse, eppure il cielo senza sorriso, e la natura intorno, arida ostile e senza dolcezza, parevano pieni del loro sentimento.” È un breve trionfo dell’innocenza, della gioia e della bellezza: “Erano biondi entrambi, – d’un biondo acceso la fanciulla, più pallido e quasi sbiadito il ragazzo, – entrambi avevano la pelle chiara, gli occhi azzurrissimi, i lineamenti delicati, come ha spesso in giovinezza la gente della Carnia.” È un rapido istante: “e tutto fu ancora solitudine e silenzio.”
Quando uscì, il romanzo creò un forte dibattito nelle genti della Carnia a causa della crudezza dei fatti narrati. I montanari stentarono ad accettare quanto vi accade, ma perfino oggi, a distanza di così tanti anni, non è difficile immaginare che in qualunque luogo della Terra, dove regnino la miseria estrema, la solitudine e dove la natura è compagna muta e indifferente, se non nemica, ciò che racconta la Drigonon è altro che la rappresentazione di una realtà abbrutita, dura e spietata assai nota, descritta da altri narratori: tra gli italiani, per fare i primi nomi che vengono alla mente, la stessa Deledda e Gavino Ledda. Troveremo scritto più avanti, accaduto il primo misfatto: “l’ombra discese sulla montagna, senza che nulla, assolutamente nulla, sorgesse a dimostrare o a ricordare che qualche cosa di anormale era avvenuto.”
La natura svolge, qui, anche la funzione di annunciatrice di una vita insicura, fragile e tragica. Sta per arrivare l’inverno, ed esso si fa precedere da un vento gelido: “era un vento grandioso, che veniva di lontano, a larghe raffiche, con un ritmo solenne e profondo, e portava l’odor della neve, il soffio gelido dei ghiacciai, squassava le cime degli alti boschi, ululava lungamente per le gole, scendeva a valle collo scrosciare del torrente, spandeva, non soltanto sulla montagna, ma sulla natura tutta, un annuncio mortale.”
Giunto l’inverno, accompagnato dalla neve, la baita è ancor più isolata dal mondo: “Alle quattro bisognava accendere il lume, e tutta la vita si svolgeva attorno al fuoco, costantemente acceso, rosso e crepitante nel basso focolare.”; “Nella cucinetta, bassa di soffitto e piccola, la presenza delle pecore e delle galline metteva un lezzo insopportabile, ma nessuno pareva rimarcarlo.”
Sono dunque la natura, soprattutto, ma anche l’ambiente, a combinare insieme lo scatenamento dei fatti tragici.
La scrittura, a distanza di così tanti anni, mantiene la sua freschezza ed anche una decisa personalità, la quale riesce a trasmetterci ancora oggi il valore della narratrice. Si veda, ad esempio, questa frase: “La giornata era chiara e senza vento, ma la neve caduta nei giorni precedenti tanta, ed ancora così fresca e molle, che ad ogni passo si affondava.”
Oppure si veda con quanta bravurala Drigosa rendere l’attraversamento di Barbe e Mariutine della valle coperta dalla neve per condurre in barella Rosute, affetta da una infezione alla gamba, a Forni, dal medico condotto, e di come sa descrivere con pochi tratti l’atmosfera popolare che regna nell’affollata sala di attesa.
Una rapida osservazione. La Drigoha una particolare attenzione per i personaggi offesi dalla natura e dà loro una spiccata personalità. Così è per Compare Guerrino (“con due salti da cavalletta riattraversò il cortile, raggiunse la porta di dove era venuto, e scomparve), gobbo e dalle lunghe gambe, il più intelligente dei fratelli, che ha saputo accumulare una fortuna e mettere su una delle più belle fattorie di montagna, in grado di competere con quelle di pianura. Così è per il ragazzo biondo, “un po’ zoppo, quieto quieto, che portava a tracolla una bella fisarmonica dipinta”, che guida la masnada di ragazzi che entrano nella fattoria per “segnar carnevale”. Il ballo (“il filò”) che si tiene nella stalla è un’altra delle pagine suggestive del romanzo, che fa pensare alle descrizioni di simili scenari presenti nei capolavori di Thomas Hardy.
Allorché la violenza sulla povera Mariutine si compie nella piccola cucina, intorno a lei e alle sue paure ci sono buio e silenzio. Barbe Zef, ubriaco per la festa tenuta nella fattoria di Compare Guerrino, e per la grappa che ha bevuto dalla bottiglia regalata da questi alla nipote, assurge a metafora del pericolo che sta in agguato nella vita di tutti noi, e che si scatena all’improvviso quando meno lo si aspetta, e il buio e il silenzio in cui l’agguato si compie altri non sono che l’isolamento e la marcatura della primitiva bestialità che ancora alberga negli uomini: “Si sentiva avviluppata in uno di quei silenzi dove pare non debba accadere nulla: dove vita, morte, gioia, dolore, sembrano aboliti sempre: un silenzio simile al nulla: definitivo.”
Mariutine si è rassegnata alla violenza dello zio (“L’uomo ormai si coricava con lei, e la prendeva quando voleva”): “Ma la povertà, la solitudine, l’aspra fatica, le aveva accettate con occhi ridenti ed ingenui, le aveva accettate cantando; «questo», le aveva foggiato improvvisamente un volto duro, spento, l’aveva invecchiata in pochi giorni di molti anni.” Non dobbiamo dimenticare che Mariutine ha soltanto quindici anni. La sola luce che le resta può provenire unicamente dalla sorellina Rosute, ricoverata in ospedale e che non ha più visto da quel giorno lontano. Barbe sembra addirittura essersi dimenticato di lei.
La Drigoha la capacità di raccontarci una tale desolazione, facendo circolare intorno alla scrittura una levità e una solarità incantate. È davvero sorprendente come la scrittura sembri rifiutare il buio che cerca di stringersi intorno ai personaggi e alla storia. Si pensi al viaggio che Mariutine compie per raggiungere, tra la neve, la malga Valmòst, dove spera di conoscere da una vecchia guaritrice (“Era una donna, più che vecchia, decrepita, col volto solcato da rughe profonde, con un fazzoletto nero legato sotto il mento”) la verità sulla sua malattia. Qui incontra un altro essere deforme (“Un innocente… Non parla e non ode.”), accudito dalla donna: “una strana creatura senza età, senza sesso, con una grossa testa su esili spalle, vestita di un camiciotto di ruvida lana scura. I suoi capelli erano canuti, la fronte grinzosa come quella di un vecchio, ma gli occhi ceruli erano limpidi, infantili.” Non vi è dubbio che la presenza di questi personaggi sgraziati e sfortunati, dalla fugace ma significativa apparizione, ha la misteriosa valenza delle oscurità che presiedono e minacciano i destini degli uomini.
La guaritrice non fa altro che constatare che Barbe le ha trasmesso la sifilide e le rivela il drammatico segreto della malattia della madre, che l’ha condotta alla tomba. Mariutine resta impietrita, muta, il suo desiderio è andare “al di là di qualunque luogo al mondo ove fossero esseri umani…”
La ragazza non pensa più, ora, al male che le è stato fatto, ma a quello che Barbe ha fatto a sua madre, causandone una lenta e dolorosa morte.
Giunta a casa, ricevuta una cartolina da Pieri, non riesce a resistere alla rabbia e, pur febbricitante, lotta contro Barbe, sopraffacendolo; poi, smarrita e stanca, si mette a piangere: “Se non avesse avuto Rosute, quale valore avrebbe avuto ormai per lei la vita, quale scopo?…” È un affetto straordinario quello che la lega alla sorellina, la quale, nonostante occupi nel romanzo un ruolo appartato, con minute apparizioni, assume di fatto il vigore e la valenza di un sogno, di una speranza, i soli che ora restano a confortare Mariutine: “Io devo pensare a Rosute, a lei sola. Devo impedire che quanto è avvenuto fra me e lui si ripercuota su quell’innocente. Devo umiliarmi ancora di più, se è necessario… Sì, per Rosute devo umiliarmi fino a chiedergli perdono!”
La personalità di Mariute, la sua innocenza, che resta sempre immacolata, nonostante le dure esperienze vissute, diventano sorprendenti e singolari. Al ritorno di Barbe da Forni e alla notizia che Rosute è guarita e sta per essere dimessa dall’ospedale, insieme con la gioia che prova, ne avverte un’altra di altrettanto vigore al pensiero che lo zio “non dimostrava rancore…, pareva aver dimenticato l’offesa ricevuta…”
Barbe le ha portato anche un regalo del gobbo, Compare Guerrino, e lei è così felice per un dono, in verità assai modesto, che riceve per la prima volta nella sua vita: “un filo di finti coralli, chiuso da un «passetto» di similoro”; “e non si domandò perché il gobbo le mandasse quel dono, né se era bene o male accettarlo: aveva quindici anni ed era donna, e sentì soltanto un’immensa, una quasi incredula gioia.”
L’autrice ci fa sapere che “Barbe Zef quella notte non si coricò con lei.”
La povera Mariute pagherà cari questi momenti di gioia. La lotta che il suo candore e la sua innocenza hanno intrapreso contro la dura realtà sta per avere il suo esito finale. La ragazza, infatti, intuita un’altra verità drammatica sulla madre e sulla sorellina, ne sarà così sconvolta che per proteggere quest’ultima (“Rosute no, Rosute no, Rosute no!”) compirà un ultimo gesto disperato. Mi scriverà, il 30 gennaio 2008, Giorgio Bárberi Squarotti: “Mariute uccide lo zio per superiore giustizia, in un mondo senza né Dio né ragione, ma dopo aver avuto un moto di pietà per l’uomo che non ha avuto quasi nulla dalla vita.”