Questi sono anni in cui lo smarrimento è il minimo comune denominatore, come un lungo viaggio dalla destinazione sconosciuta, in cui si affrontano momenti di panico e di poco orientamento. Questi sono gli anni del complottismo. Un neologismo, neanche tanto “neo”, che affonda le radici negli anni settanta, ma che ha visto l’esatta definizione del suo conio in questi ultimi tempi. Un marchio su cuoio per porre fine a discussioni con troppi punti interrogativi, come se la stessa esistenza quotidiana non ne fosse piena. Parola sulla bocca di tutti, in giorni in cui ci si è trovati ad affrontare l’esplorazione della profonda e buia caverna dalla quale il governo Monti ha improvvisamente visto la luce. «Tendenza a vedere complotti dappertutto, anche senza fondamento, che spesso si manifesta come fissazione e mania». Andando a curiosare su un qualsiasi affidabile dizionario, troviamo questa definizione, che di certo offre il fianco a numerose critiche. L’epiteto ha certamente un’accezione sprezzante, tuttavia si fatica a trovare nella sua parafrasi qualcosa di realmente negativo.
Partendo dal presupposto che qualsiasi domanda in questo mondo è lecita, questa “tendenza” può fuoriuscire solo nel momento in cui c’è una volontà di analisi sulla realtà. Il rifiuto dunque non si imbatte in quello che si vede (e sul quale si esprime un parere), ma in quello che si crede. In quello che possiamo definire come “dato di fatto”. Un “dato di fatto” particolare, che non ha origine dal ragionamento, ma dal rispetto, talvolta ossequioso, di elementi non sviscerati, e posti come vangelo. Possiamo dunque dichiarare che il nostro complottista rifiuta gli assiomi, e cerca di capirne i motivi. Molto spesso però, questo tentativo di analisi si scontra, appunto, con pareri pasciuti a forza di dogmi e verità già confezionate. Lì nasce la discriminata tendenza a vedere “dietro” le cose. Come se questa predisposizione già non faccia parte dell’indole umana: porsi domande.
La mitologia antica ci insegna come la religione avesse la funzione di dare una risposta a enigmi apparentemente incomprensibili, che pretendevano strumenti molto più elevati per i tempi (si pensi alla classica favella di Zeus, e dei fulmini). Ecco, forse si dovrebbe estendere il concetto di religione, tentando di dare al termine una connotazione esclusivamente laica. Religione, infatti, non significa soltanto dire che «Allah è grande» o che «Cristo è Misericordioso». Significa anche dire che «Monti salverà il paese» o che «gli Stati Uniti rappresentano il giusto». Significa dire «Tizio ha ragione perché è un grande scienziato» o «Caio ha torto perché è un pazzo».
Opporsi a questo sistema di cose non significa necessariamente credere in qualcosa, tutt’altro: significa riconoscere i propri limiti un gradino più in su rispetto a dove gli altri pretendono di delimitarli. Non significa avere la verità in tasca: significa provare a considerare un’eventualità in cui il concetto di vero sia soltanto la rappresentazione di una sfaccettatura del falso. Certo, noi siamo da sempre stati educati ad entrare in un mondo dalle divisioni nette, tracciate con riga, squadra e compasso. Territori dai quali, chissà perché, non si può uscire. Un mondo in cui il contenuto è sempre in secondo piano rispetto al suo contenitore. Una sorta di mastodontica sineddoche in cui si nuota cercando di allacciare corrispondenze non in base a ciò che si pensa, ma in base a chi lo pensa e a come lo pensa.
Tornando a fare un esempio, mi ritrovo a pensare a Paolo Barnard. Il giornalista bolognese, ex fondatore di Report e emarginato illustre della rete d’informazione italica, durante la settimana scorsa è stato ospite di “Matrix”, insipido polpettone d’informazione condotto dall’altrettanto insipido Alessio Vinci. Per l’occasione – sull’onda delle polemiche scaturite in seguito alle ombre che aleggiano sull’identità di molti dei componenti del nuovo governo Monti e sul poco ortodosso modo con cui questo esecutivo si è insediato – “Matrix” ha deciso di dedicare la puntata alle teorie cospirative. Barnard è stato invitato dunque per esporre ciò che di solito esprime in modo molto colorito, come ormai consuetudine, per chi lo conosce. Insieme a Barnard il blogger Messora, e Giulietto Chiesa. La trasmissione, iniziata con una parodia scherzosa del complottismo, sulla stessa stregua di ciò che si dice qui sopra e della denigrazione più becera, aveva l’intenzione ben riuscita di contrapporre l’immagine credibile di chi si mantiene sempre nei contorni della siepe leopardiana a quella di chi si sforza di oltrepassarla, anche soltanto con lo sguardo.
Risultato del piano? Dare un giudizio sulle teorie “complottiste” (non posso usare altro termine) senza usare parte verbale, ma servendosi esclusivamente della comunicazione non verbale. La parte cospirazionista subito screditata con quel video, la parte credibile che non aveva bisogno di contributi, avvalendosi del puro raziocinio. Un messaggio ben chiaro, una trappola ben costruita, talmente bene da non farla sembrare tale (come spesso accade, anche nelle piccole cose, durante la vita di tutti i giorni). In questo gioco diabolico sono emersi tutti i limiti di Barnard, che ha completamente sbagliato tutta la strategia comunicativa, nonostante le sue teorie fossero (e siano) avvalorate da dati, e sicuramente credibili. L’atteggiamento aggressivo del giornalista bolognese, fatto di un linguaggio piccante e fin troppo diretto, ha giocato inevitabilmente a suo sfavore. Frasi come «Draghi è un traditore della patria» o «questo è un Golpe» non hanno fatto altro che produrre nell’ascoltatore (prima ancora che nell’interlocutore) un atteggiamento diffidente che inevitabilmente è sfociato in una poca considerazione nei confronti dei concetti di cui Barnard credeva di farsi portatore. Guardando la trasmissione si avvertiva immediatamente che al più stupido degli interlocutori, di fronte ad un atteggiamento così irrequieto e aggressivo, sarebbe bastato un solo sorriso di compassione per buttare all’aria un castello che pure era (ed è) composto da rigorosi processi logici e dati esposti meticolosamente per confermare tali tesi. Insomma, un lavoro immane, quello di Barnard, rovinato da una scarsissima predisposizione alla comunicazione.
Una sorta di antitesi berlusconiana, destinata inevitabilmente a soccombere in un mondo in cui, appunto, il contenitore soverchia il contenuto. Personaggio per nulla televisivo, Barnard ha pagato amaramente, e di riflesso, i suoi modi così agitati e le sue parole così forti. In un mondo improntato su questa strategia comunicativa, chi privilegia i fatti a scapito della forma è destinato a soccombere. Una società, la nostra, che straborda di forma. Di apparenza. Che offre pomposi contenitori di nulla, ove le persone vengono inchiodate alla vetrina, senza mai decidersi a verificarne l’effettiva qualità dei prodotti esposti.
Un ragionamento che si perde nella notte dei tempi, passando dalla strategia di marketing e arrivando fino alla pratica del corteggiamento amoroso. Chi si sa vendere, ha ragione. Indipendentemente da ciò che dice. Chi ha la forza di costruire un’ottima custodia, non ha bisogno di riempirla con ori preziosi. Ecco qui, il problema del complottista. Tentare di andare ad aprire la confezione più curata, scoprire che essa è piena di scarti, e tentare di domandarsi “perché”. Un compito non facile, in una realtà in cui anche la stessa “dietrologia” diventa una bandiera sotto cui marciare, per ragionare partendo da dogmi. E allora capita che Barnard si costruisca – non so se più o meno consapevolmente – uno stuolo di fedelissimi che vogliono schierarsi a favore della teoria del dubbio, senza porsi alcun dubbio.
La degenerazione dell’apparenza, e dell’appartenenza, è infatti ovunque. In questo gioco al massacro, rimane schiacciato chi tenta in ogni modo di creare dubbi, e non di dissolverli. Chi ha la consapevolezza di essere in mezzo ad un deserto, abbandonato da una parte e dall’altra, con la sola possibilità di un bivio: rinunciare, o sbattere la testa contro il muro. Da una parte, chi non si accontenta di dati di fatto, mentre dall’altra, chi preferisce (anche attraverso teorie complottiste preconfezionate) non addentrarsi in sentieri che non siano perfettamente asfaltati , e che non abbiano stazioni di servizio ove rifocillarsi durante un percorso che non prevede cartelli e indicazioni varie. E si sa quanto un’indicazione possa risultare di conforto, durante un viaggio in cui non si conosce la strada: le bussole, in questo itinerario, non sono ammesse.
(Pubblicato su “Il Fondo – Magazine” del 21 novembre 2011)