Paolo Fichera: il mio male è la pietra

Da Narcyso
2 dicembre 2013

Paolo Fichera, BOSCO, Anterem 2013

Ci sono poesie misteriosamente baciate da una ferita – fenditura che abita la superficie della pietra – mostrata senza pudore. Eppure l’anima è il bosco e la ferita è protetta dal silenzio.
Per districarsi nei folti meandri di questo bosco, occorre partire dai frammenti semplici, quelli che lasciano tracce e indizi. Per esempio questo:

come se la lingua fosse un deserto paziente
la digressione oltre due punti inconciliabili
un libro accartocciato nella tasca, un cappotto lungo, un essere umano

Ecco, forse il problema centrale è, appunto, la lingua, e una considerazione a monte potrebbe riguardare il perché si approdi a una lingua che, forse, e sempre, è questa digressione oltre due punti inconciliabili. Che vuol dire, anche, leggere, avvicinarsi a questa scrittura per brandello di letture, isolando versi e parole laddove questi mostrino la rete nascosta che tesse la Voce facendola emergere per gorghi, scatti, ondate piroclastiche ad alto contenuto ustorio.
Che questa scrittura sia ispirata da una frattura oscura “il mio male è pietra, / culla di rondine affogata nel suo cammino”, l’abbiamo detto in altre occasioni. Qui si presenta nel suo magma, nel suo farsi e sfarsi partendo dall’origine (il bosco) e diradandosi verso i sentieri del distacco.
Un distacco di movimenti (danza e fuoco) intorno al nucleo stesso del respiro o dell’esistenza, inspiegabili attraverso le parole, le quali sanno di abitare una “sostanza” che tutto sovrasta eppure capace di creare partendo da getti di volontà, pura espulsione di materia verso i mondi abitati.
Questo padre Nulla che “ci sovrasta e ci abita”, non è l’assenza, perché è chiaro a ogni poeta che la parola, la poesia, altro non può essere che forma ed è essa stessa, probabilmente – ancella o sacerdotessa – a dare senso a un formidabile dispiegamento di materia, di parole, non importa quanto edificato su delle certezze o quanto su poche inestinguibili domande illusorie.
Che cosa possa rappresentare questo bosco per corrispondenza simbolica, è tentazione facile da evitare in una poesia che non si ammortizza e non cede. Semplicemente vediamo come esso sia abitato da forze, necessarie ai fenomeni di stasi e rigenerazione: il cervo, la vergine, il fuoco, la notte, la luna, la danza, la bestia, l’acqua, il lupo, il guado…innominabili veramente, perché il nome sfugge nell’atto del farsi esperienza – l’esperienza rigenera la parola, non è più interessata a decodificare ma ad attraversare -.
“All’origine dei movimenti” c’è dunque la lotta, non la parola. La parola viene dopo, per dire ciò che si è svolto in quel non tempo, nel modo che non può appartenere al logos ma solo al corpo e alla sua espressione naturale: la danza, prima forma di parola.
Forse questa parola è rimasta impigliata allo svolgimento della lotta, ai confini del bosco, nell’intervallo tra un essere per naturale accadere e giustizia e un non essere che accoglie la parola per nostalgia e ricatto.
Così questa poesia è nel dolore del mondo (lo evoca a strappi) e non è attratta da un ritornare, da un quietarsi come il figlio nelle braccia di una madre che non ha, non può avere nomi in quanto tutti li comprende.

Sebastiano Aglieco
Boon, luglio 2013

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