La caduta di un meteorite sulla Russia, avvenuta qualche giorno fa, mi ha portato a ripensare a un articolo scritto da me nel 2007: lo ripropongo ora come una riflessione breve, ma forse ancora d’attualità, sul senso che può avere per il mondo di oggi occuparsi di poesia. Paolo Lagazzi
La stanchezza del mondo
Ripensare il senso, il valore e il ruolo che la poesia può ancora avere nel mondo, è un compito che va ben oltre le questioni di linguistica o di poetica, il vaglio degli strumenti retorici o le annose discussioni sul canone: è un compito che chiede a tutti noi, poeti o critici, o entrambi, il coraggio di considerare con chiarezza la situazione generale dell’uomo in questo momento storico. Per quanto mi riguarda, se mi fosse chiesto di indicare il sentimento prevalente nei nostri anni, non avrei esitazioni: questa è l’età della stanchezza. Innumerevoli opere, non solo di poesia, grondano oggi stanchezza: sono voci opache, espressioni di apatia, testimonianze di una vitalità ottusa e perplessa, benché ammantata di colori sgargianti, di abiti alla moda e di più o meno capziosi maquillages. >>
Tutti, ormai, sembrano diventati scrittori e poeti: nessun campo di ricerca è precluso a nessuno, i segreti e le finezze più sottili dell’arte sono a portata di chiunque… Eppure in questo dispiegarsi apparente dell’“intelligenza” e della sapienza cova un senso evidentissimo di spossatezza, come se il “tutto per tutti”, o l’eccessivo flusso delle forme, delle idee e dei segni, non fosse che l’espressione di uno svuotamento radicale del senso dei linguaggi. Presi in un intreccio inestricabile fra la stanchezza delle parole e le parole della stanchezza, gli uomini appaiono sempre più rassegnati, incapaci di credere davvero che qualche grande novità possa trasformare in meglio la storia. Se qualcosa di nuovo incombe sul nostro tempo, è un sentimento di fine prossima del mondo non più vissuto col terrore degli antichi di fronte alle immagini fiammeggianti dell’Apocalisse, ma quasi accettato, o assorbito mollemente, giorno per giorno, come l’aria inquinata che respiriamo.
Di recente la NASA ha reso ufficiale una notizia che aveva già cominciato a circolare (se non ricordo male) nel 2001: fra ventinove anni, e precisamente il 13 aprile 2036, è possibile che un enorme asteroide, in viaggio verso la terra a folle velocità, centri in pieno il nostro pianeta: la collisione causerebbe un contraccolpo tale da distruggere in modo completo la vita degli esseri umani. Occorre aggiungere, per onestà, che a questo evento viene assegnato un indice probabilistico bassissimo; ma il fatto stesso che non lo si escluda per nulla, anzi si cerchi fin d’ora di mettere in cantiere una costosissima operazione aerospaziale (un’astronave che dovrebbe essere in grado di deviare l’asteroide), è piuttosto inquietante. Il pensiero di un’eventualità simile non dovrebbe colpire la fantasia di milioni di persone, tanto seria e drammatica è l’ipoteca che essa pone sul futuro dell’umanità? Di fronte a un allarme del genere (suffragato dai più raffinati scienziati) non dovrebbe mutare il nostro stesso senso del tempo? Da questo momento in poi, non sarebbe giusto scandire il tempo, sia pure in termini possibilistici e non certi, come un conto alla rovescia?
Infinitamente remota da questo scenario, tanto da riuscire quasi patetica, appare la riflessione, sviluppata da Umberto Eco nel 1964, sulle ideologie parallele e opposte degli “apocalittici” e degli “integrati”. Anche a chi non voglia considerare la notizia della NASA, non può non riuscire evidente che da quegli anni ’60, così allegri e vitali a osservarli con gli occhi di adesso, il mondo è andato accrescendo il suo potenziale autodistruttivo, malgrado la fine della cosiddetta guerra fredda, in modo esponenziale: mille nuove paure (generate dal terrorismo fondamentalista come dai cambiamenti climatici e da inedite minacce epidemiche) sono emerse e continuano a emergere, giorno per giorno, da un abisso che non pare aver fondo. Chi non sarebbe tentato di dire, oggi, che gli “apocalittici” sono non più dei visionari ma i soli veri realisti? Eppure ho l’impressione che nei nostri anni non si viva tanto nel terrore quanto nella rassegnazione, o in un’assuefazione progressiva al terrore.
Entro questa scena, quale vitalità può avere la poesia d’oggi? La sola, non ideologica prospettiva di verità rimasta ai poeti è forse quella di farsi testimoni, come il Friedrich di un quadro famoso, del naufragio della Speranza? Forse soltanto al fondo della stanchezza e della debolezza essi potranno ancora trovare la via della loro luce? La stanchezza è l’unica, paradossale forma d’infinito concessa a coloro che si sentono ormai sull’orlo della dissoluzione di tutti i fini e i confini, di tutte le forme, le poetiche e le scelte di campo, di tutti i discorsi e i rapporti, di tutte le architetture e le distanze, di tutte le isole di bellezza e le oasi del sogno?
Malgrado la parte di stoicismo resistente in molte anime amareggiate, non credo che i poeti potranno mai adattarsi a essere il puro e semplice specchio del naufragio dell’esistenza. Già Hölderlin aveva osservato, in limine alla grande crisi del moderno: “Ciò che resta, lo fondano i poeti”. Riportato alle prospettive un po’ tremende del nostro futuro, tale pensiero potrebbe significare che solo i poeti sapranno custodire la fede, la speranza e la carità fino all’ultimo istante del mondo. Questo avverrà non perché essi si sentiranno investiti di una missione profetica o salvifica, né tantomeno perché la società li assillerà con la richiesta di farsi cavalieri dei Valori, ma perché sapranno mantenersi, nel cuore stesso della stanchezza, liberi d’immaginare un luogo di grazia, un altrove che potrebbe essere anche il più piccolo dei nostri qui, il più umile e segreto dei nostri passi.
Il poeta del Novecento italiano che ho amato e continuo ad amare di più, Attilio Bertolucci, è lontanissimo da ogni pratica di profetismo, eppure nella sua voce pacata e naturale, nutrita del sentimento della quotidianità, vibra una fede irriducibile nella vita, nella luce della bellezza. Senza mai confessarlo esplicitamente, forse addirittura senza saperlo, le sue parole hanno in sé molto di cristiano e di buddhista: sanno esprimere l’incanto annidato anche nello strazio, nel sangue dei momenti; sanno mostrarci tutte le vie per fare del nostro cuore, attraverso e oltre le voragini della stanchezza e dell’ansia, la trepida cassa di risonanza del mistero gaudioso dell’universo (“Mi sento stanco, felice / come una nuvola o un albero bagnato”; “Gli occhi stanchi colpisce di lontano / il rosso papavero in mezzo al tenero grano”)..
Idealmente fraterni a Bertolucci, altri poeti continueranno a resistere nonostante gli spettri della fine, della distruzione e del caos. Anch’essi, senza inalberare proclami apocalittici e senza d’altronde pretendere alcuno speciale miracolo, continueranno a scrivere testimoniando la loro fede nel “qui e ora”, nel dono del presente. Liberi dall’enfasi e dal patetico, immuni dai timbri oracolari come da quelli pietistici, i loro versi saranno forse le ultime preghiere gettate al cielo per la salvezza di uno sguardo, di un bacio, d’un albero, d’un bicchiere di vino condiviso, d’una stretta di mano, di un momento di luce su un angolo di muro.
Paolo Lagazzi (2007)
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MAE Milano Arte Expo -milanoartexpo@gmail.com- ringrazia Paolo Lagazzi per il testo La stanchezza del mondo e l’apertura della pagina POETIC ART dedicata alla poesia.
Paolo Lagazzi, saggista e scrittore. Si è occupato di letteratura, buddhismo, magia, musica, cinema e pittura. Collabora a riviste e case editrici italiane e straniere. Ha pubblicato libri di saggistica, fiabe e racconti. Ha curato antologie di poesia giapponese e, per i “Meridiani” Mondadori, le opere di Attilio Bertolucci, Pietro Citati e Maria Luisa Spaziani.
Consigliamo la lettura della pagina Wikipedia dedicata a Paolo Lagazzi: > LINK
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