Paolo Pistoletti: la mancanza ricompone tutto…

Da Narcyso
16 aprile 2014

Paolo Pistoletti, LEGNI, Ladolfi editore 2014

Mi prende la commozione, (sono un critico se lo dico?) a leggere questa opera prima di Paolo Pistoletti, come a volte mi è capitato per pochi altri libri. Un modo, certo, che non tutti i libri permettono e che non rappresenta di per sé una chiave per entrare in tutti i libri. Ma è certo che la poesia può mostrarsi in forma di musa, imbavagliata dai suoi rimandi a immagini iperuranie, alla ricerca di una bellezza astratta, senza braccia e gambe, e occhi, e orecchie e lingua. Oppure dotata di uno solo di questi mezzi, enormemente amplificato, condannato a percepire ossessivamente il sé solo in una limitata banda di sequenza.
Eppure c’è un vasto mondo di poesia “onesta” che riesce a parlare agli altri, a porsi in funzione di specchio: o filtrando il proprio mondo nel Mondo, restituendolo con modestia, con parole che cercano un senso, imparando ad osservare, a guardare attraverso le cose, soprattutto a non sacrificare per partito preso, l’aspetto emotivo della parola; oppure mantenendosi bassa, senza mai rinunciare a una visione universale – siamo sempre iscritti in un “codice terrestre” per citare Gabriela Fantato, o nella logica dei dodici segni zodiacali, (Luigi Cannillo), o in uno sguardo comunque buono (Corrado Bagnoli) -
Molte altre citazioni potrei tirare in ballo per costruire una mappa, (non un canone, per carità) una mappa di senso capace di riassumere tutti quelli che negli altri siamo stati.

Legni

Non mi ricordo più quante volte si muore,
quante stagioni di legni
ci pesano sulle mani
prima di rovesciarci il cuore.
All’ospedale di Careggi c’è il bianco
delle mura che in mezzo ci passa
chi non ce la fa più a restare qua.
Quelli che invece tornano
nelle vene hanno sentito
tutto il risucchio che viene dagli aghi
dal tubo della flebo
fino alla luce del neon
dove a un certo punto
uno non più niente
tutto lì nel mentre,
tanto che a sorpresa
non avendo più materia
si smette di tremare
senza cassa senza risonanza
la mancanza ricompone tutto
porta a zero la distanza.

Da bambini si arriva ogni volta
al momento giusto
come una bolla al centro del lago,
la memoria poi torna dopo
quando un giorno d’estate
il sole spacca le pietre
e allora si esce.
In corsia si dice che un giro
moltiplicato per sempre sia l’eternità.

Firenze, ospedale di Careggi, reparto di rianimazione, aprile 2001
p. 25

Il pensare, qui, è minimo ma profondo, – essere minimi, vicinissimi alle cose, l’unico modo per essere profondi -. Che spesso vuol dire lottare contro il rischio di sprofondare verso l’innominabile dell’anima e delle stelle. Qui, per mostrarsi vicini, bisogna nominare la propria casa, i figli, il padre, i vecchi…

Pensare

Alla fine quando sono qui rivedo
la giornata trascorsa
le persone le sedie gli alberi.
Ecco è tutto qui il mio pensare,
come in auto quando dallo specchietto
alle spalle vedi che passa dietro
la strada, e allora lo senti
che a reggerti sulla schiena
è tutto quello scorrere
quel grande fiume di asfalto
e mondo che ti porta
dritto a casa
fin dentro al garage.
Lì dove c’è sempre
una serratura da girare
lì dove in punta di piedi
sottili si passa per quell’unico
punto che conta.
p. 29

Pub

Il pub vicino a casa apre
quando i nostri vecchi chiudono i battenti.
Il braccio teso una maniglia una porta
e poi un ingresso verde
che se spingi forte
superi una soglia.
Ed ecco le cose e le persone
chiuse dentro come fili elettrici nella guaina.
Dentro c’è il buio pesto della gente
la notte abbottonata che non esce
tra i litri di fiaccole e i bicchieri
ammucchiati sui tavoli
le cameriere sollevano bottiglie e vetri
come lanterne
sopra le tovaglie le facce
truccate da niente
come in montagna il freddo
quando è così tanto
che non si sente.
Ma è tardi stavolta
quando qualcosa sfiora le spalle
e dalla porta un padre entra.
p. 31

Ecco, è tutto qui il pensiero: aderire, sentire, per contatto, ciò che sentono gli altri, la stessa guaina di dolore che permette di non sprofondare. O sprofondare insieme.
Per fare questo occorrono radici, occorre il padre, anche quando se ne è andato.

…………………………………………
E laggiù oltre il blu mio padre
che con la schiuma sui capelli
è l’onda più grande che c’è
che ha fatto come due gocce me e mio fratello
con mia madre controvento
su tutto questo sale
che conserva tutto sotto
mentre a noi bambini
gli occhi ancora ci bruciano.
p.33

È, come si vede, un’ immagine gigantesca del padre, eppure quanto reale, quanto vicina ai nostri ricordi.
Occorre una casa a queste poesie, soprattutto una finestra.

Alla finestra

La fronte sul vetro
il grigio fuori e questo viso d’acqua.
Mia figlia alle spalle
che cresce con la febbre.
Quanti pensieri sul tetto di fronte
si lavano pronti per la pioggia,
e quanti vanno via
nelle grondaie dentro le vene
nei prati e negli occhi di chi ho conosciuto.
E quanto
tutto questo asciugarsi di legni
ci somiglia.
p.21

Occorre uno sposo, uno sposa; comunque due che si vogliano del bene; una voce bassissima che non è pensiero debole, ma forza del seme che spunta dalla terra e vuole vivere. Per sé, per la propria momentanea gloria. Per gli altri che deve nutrire.
Scrivendo, mi accorgo che queste parole sono condotte da un sentimento, ed è l’unico modo che ho veramente per scrivere.
Eppure, scrivere è anche trapassare, travasare, giungere da un luogo, passare in un altro. Fare in modo che lo sguardo si faccia ferire e che la ferita sia sempre dono per la scrittura; è aprire la camicia e mostrare il petto, e la gola, fare in modo che le nostre parole non esercitino alcun potere, capaci di spogliarsi perfino dell’odore sontuoso della vita quando il narciso si appressa alla sua fine.

Stazione

È come di mattina presto alla stazione
quando resto sempre un po’ indietro sulla schiena
non riesco a farmi sotto come fanno gli altri
in faccia a tutto quel che passa
tra le porte gli interstizi i finestrini scorrevoli.
Per chi come me guarda e basta
il buio è come uno scacco nero prima della mossa
assomiglia alla gente che cresce piano nella folla
come una macchia che s’allarga
contro il bianco delle luci del bar
che gira tutta là lontano sui vetri
col gelo intorno che sembra il nord del mondo,
mentre io qui fermo tra tempia e tempia
con un biglietto un treno un binario
nei secoli dei secoli per sempre lontano qualcuno che mi aspetta.
p. 51

Per fare questo bisogna imparare a scrivere come si parla, come faceva Jahier nel canto della sposa, Pavese anche; che vuol dire non dimenticarsi chi siamo, da dove veniamo, quali sono i nostri debiti e qual è il dovere di restituire al mondo qualcosa che non sia solo nostro ma di tutti. Perfino il nostro stesso dolore.

Come un fiume mia madre scorre piano
una dopo l’altra le foto sopra al tavolo
risale i ricordi fino al fondo dell’argilla.
E sembra più bella adesso che la guardo
un’impronta sulla sedia che non sa niente,
poi la voce che si incrina con tutti quei nomi
come acque che si rompono dopo il bene.
p.57

Sebastiano Aglieco


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