Prima di aprire un libro di Paolo Rumiz occorre sapere alcune cose su Paolo Rumiz. Primo: è letteralmente malato di Balcani, Bosnia in particolare: è lì che ha svolto il mestiere di inviato al tempo dei fatti che tutti conosciamo. Secondo: è uno dei viaggiatori più sani e ostinati che l’Italia conosca; del viaggiatore ha l’insaziabile curiosità, la naturale fusione, la poesia del nostalgico. Terzo: come tale, tutto quello che racconta o è vero perché è vero o è vero perché qualcuno gliel’ha raccontato.
Nulla nei viaggi di Rumiz si muove se non dal racconto. Il potere evocativo dei nomi di persona, stazione, porto, battaglia, comandante, ponte, isola: nominare significa esserci di nuovo, accadere di nuovo, viaggiare. Ecco allora la cornice di questa storia: averla sentita dal diretto protagonista, averla narrata a sua volta così tante volte da sentire il bisogno di metterla per iscritto (che sia verità o pretesto letterario non conta).
La cotogna di Istanbul resta comunque il libro meno “viaggiante” dell’autore triestino, almeno secondo i consueti canoni. Vero: ci sono Vienna, Sarajevo e il Bosforo, le valli bosniache, le colline austriache e i bazar turchi. Ma è una storia d’amore: vive soprattutto di parole e di gesti. Le parole sono quelle di un’antica canzone orientale, una di quelle che esistono da sempre, formule magiche capaci di stregare chi le ascolta e di determinarne le scelte; i gesti invece prendono avvio dalla necessità contingente della guerra, del dolore, della malattia.
Dove sta il viaggio allora? Nel linguaggio. Anzi, ancora più a fondo: nella metrica. Rumiz scrive in prosa ritmata. I suoi non sono veri e propri endecasillabi ma hanno comunque l’andamento dei racconti di un tempo, quelli dei nonni. Si avvicinano a quell’oralità con cui si è costruita ogni leggenda, al potere della parola soprattutto detta (di Maša, la femmina fatale, sembra di percepire il tono di voce). E poi, quel verseggiare, da una parte ricorda il ritmo scandito dei treni del Rumiz viaggiatore lento, dall’altra (e soprattutto) i passi, il respiro, il battito del cuore di Max, l’architetto austriaco, che da Vienna muove fino a Sarajevo per scacciare i fantasmi che ha dentro.
Maša e Max vivono un amore destinato, breve, fascinoso, sufficiente per trasformarsi in canone. Lei donna di Bosnia, selvaggia e inaccessibile, capace di resistere a tutto tranne che alla malattia; lui cittadino austriaco, un matrimonio alle spalle, irrazionale quel che tanto che basta per mettere la propria vita nelle mani del destino. La loro storia è la storia della cotogna di Istanbul: un vortice che trascina persone e luoghi con una forza tale da farci perdere di vista i confini tra il narratore e il suo pubblico, tra il luogo dei fatti e il luogo della narrazione, tra il presente e il passato. Senza autore, senza tempo e senza luogo: sono così – ce l’hanno insegnato – le storie che diventano epos. (Antonio Oleari)