Elisabeth di Paolo Sortino (Einaudi, 2011) racchiude in sé il segreto della matrioška: la coesistenza spazio-temporale della verità tutta esteriore della madre e della sua origine nell’intimità del seme. Come nella matrioška, non conta il passaggio dal livello superficiale a quello profondo, ma l’immediata compresenza di molteplici verità, il cui statuto non è nella successione cronologica della ricostruzione cronachistica, nella riproduzione pedissequa degli atti processuali o nella decostruzione della realtà in funzione di una più agevole fruibilità. La contestualità rompe il dato della consequenzialità tipico, invece, di un approccio da precettistica morale.
La verità-madre è il dato di cronaca: Josef Fritzl che, a insaputa della moglie Rosemarie, rinchiude la figlia Elisabeth in un bunker per poterla finalmente ridurre a schiava.
La meticolosità con cui Josef realizza il suo piano è quella del Narratore innamorato del suo racconto senza valutarne le implicazioni etiche: l’esito malvagio è elemento sociale e secondario, non intenzionale. Josef costruisce un mondo parallelo con regole nuove da osservare senza rompere gli equilibri dell’obbedienza allo statuto sociale pubblico. Non potendo oscurare la luce, crea il suo buio in una dimensione dicotomica tra l’ufficialità del sopra e la felicità del sotto (In superficie Josef era tale e quale all’idea che i vicini di casa avevano di lui; sottoterra perfezionava l’idea che aveva di se stesso, pagg. 65-66); un buio artificiale che diventa contesto di realizzazione dell’asservimento pianificato e pretesto narrativo simboleggiante la discesa nell’abisso, in cui si radica la seconda verità del romanzo: la lotta tra il padre e la figlia come riproduzione dello scontro tra bene e male, passando attraverso l’hegeliana dialettica di servo-padrone.
Nella trattazione di questa verità, Sortino a tratti abdica al ruolo di scrittore e si fa scienziato che osserva, appuntandone gli esiti, lo svolgersi del suo esperimento. L’eccessiva caratterizzazione di Josef, nel ruolo di cattivo, e di Elisabeth, in quello di serva costretta a sopravvivere a se stessa, li trasforma da personaggi in cavie umane che confermano le ipotesi scientifiche di partenza. Il bunker diventa l’ambiente protetto e controllato ricostruito dal ricercatore e la soggettività di Elisabeth scivola via per lasciare il posto a una marionetta che simula azioni e reazioni da manuale di una vittima di rapimento e stupro incestuoso. Così, nell’arco di una cinquantina di pagine, Sortino registra meticolosamente tutti i movimenti intimi di Elisabeth, ricostruendone i pensieri attraverso l’analisi critica di comportamenti riprodotti per essere osservati: ribellione irrazionale (pag. 36); rassegnazione fatalista (pag. 36);auto-responsabilizzazione da senso di colpa (pag. 39); responsabilizzazione dell’atavica mostruosità umana (pag. 41); auto-distruzione (pag. 45); consapevolezza del proprio potere (pag. 46); assimilazione al luogo della prigionia (pag. 71); percezione di sé come nemico (pag. 72); senso di solitudine e trasformazione del carnefice in garante di sopravvivenza (pag. 75);riproduzione di un mondo in scala e invenzione di una laboriosità sotterranea come forma di controllo e dominio sul tempo (pag. 75); regressione all’infanzia nella forma di dominio sugli oggetti (pag. 79); riappropriazione del proprio io nella funzione di comando (pag. 79).
In tutta questa successione, il lettore è trasformato in spettatore kantiano di uno tsunami giapponese. Ci interroghiamo sulla prossima cattiveria che Elisabeth dovrà subire e sulla malvagità di Josef, allo stesso modo di come ci interroghiamo sulla dimensione delle onde o sul livello di radioattività, rimanendo sempre a debita distanza, protetti dallo schermo di invulnerabilità ed estraneità rappresentato dall’eccezionalità della figura mostruosa.
«Perché non la lasci?» (pag. 183) chiede Elisabeth al padre e sembrerebbe
la vittoria di Josef che, rinchiusa Elisabeth fisicamente e psicologicamente, attribuisce al desiderio della figlia la trama ordita (Quanto desideriamo diventare è ciò che siamo da sempre. Era convinto che almeno Elisabeth l’avesse compreso, pag. 212) in un’apparente confusione tra lo Josef degli ultimi mesi, ormai vecchio, stanco e succubo della figlia, e quello cinquantenne che, come il professor Humbert, un po’ seduce e un po’ è sedotto dalla bellezza della giovane Elisabeth. Ma anche in questo caso siamo in uno dei passaggi intermedi della verità. Il romanzo, infatti, ha inizio con la liberazione di Elisabeth non dal padre, ma dalla madre a cui grida «Lasciami in pace» per cominciare il suo viaggio piangendo come chi viene al mondo (pagg. 10-11). Elisabeth rinasce madre di se stessa e a Rosemarie non resta che regredire allo stato di figlia che civetta coi giovani militari (Le offrì il braccio e la condusse fino al divano, mentre lei, affranta, scuoteva ai lati il caschetto biondo, pag. 48), dei cui corteggiatori i genitori amabilmente sorridono nel buio di un bunker diventato alcova e alla quale è concesso il beneficio dell’incoscienza (Infine toccò a Rosemarie che in mancanza di prove venne scagionata dall’accusa di complicità, pag. 215).
La forza mitopoietica di Elisabeth affonda nella descrizione di una trinità che lega l’intimo e il doppio sociale in un’atmosfera che a noi appare macabra ed oscena ma che ai protagonisti potrebbe apparire come la ripetizione di un gioco infantile in cui padre e figlia si rincorrono fino a quando Elisabeth, ormai senza scampo, battendo i piedi eccitata per essere stata raggiunta, aveva riso col batticuore lasciando all’improvviso quel gioco di paura per ricordare chi erano, padre e figlia: si erano abbracciati allora con tutto l’amore che provavano (pag 208).
Se ognuno dei personaggi è una matrioška (Josef, insieme padre, marito e nonno; Rosemarie, insieme madre, moglie, figlia e nonna; Elisabeth, insieme figlia, moglie, madre e sorella), allora l’incesto è tale solo per chi è estraneo a questa trinità umana dal basso, mostro a tre teste abilissime nel perseguire se stesse in personalità diverse. Ma ogni gioco delle parti finisce nell’agnizione e nel ritorno alla realtà sociale: «È anche tuo padre, non te lo dimenticare» (pag. 213). Ci si riscopre tutti membri della stessa famiglia, abbracciandosi, appunto, con tutto l’amore necessario a risalire dall’abisso con cui Sortino gioca con risultati alterni, riconoscendo, nell’atto e nelle azioni, il desiderio come seme originario.
Nella casa di Amstetten, ricostruita da Sortino, assistiamo alla riproduzione dei meccanismi vitalistici del desiderio all’interno di una dimensione familiare i cui componenti si lasciano cadere sempre più verso il basso; è la natura umana colta nella irrefrenabile affermazione di sé e dei propri istinti, in un percorso di soddisfacimento in un mondo sommerso in cui l’appagamento è possibile senza squilibri o scompensi morali.