Quanto può essere reale un sogno? Molto più della vita stessa, se a essa si sostituisce e si sovrappone, scuotendola appena, eppure abbastanza da far scorgere tutto quello che va nascosto.Tutti noi avremo avuto una madre, un nonno, uno zio, magari una noiosa cugina che ci faceva notare che quel comportamento proprio non andava, che sì, potevamo anche metterlo in atto, che lei ci comprendeva persino, ma che non per questo quell’azione doveva essere resa palese.
Perché la forma è sempre presente, la forma è tutto, la forma è così pervasiva da poter diventare l’unica nostra sostanza. Quello che pesano gli altri, quello che dicono gli altri, quello che fanno gli altri alle nostre spalle, perché gli altri sono capaci di tutto e noi non ci fidiamo mai davvero di nessuno. Perché i tempi sono cupi e la tracotanza è diventata legge e l’etica è solo una parola confusa che non sa bene dove andare. E allora parliamo di sogni. Come quello che ci presenta Edoardo De Filippo all’inizio del suo Le voci di dentro [1], quando Maria, la cameriera della famiglia Cimmaruta, con le movenze da geisha accelerata che spara turbinii napoletani come se fossero colpi del suo ventaglio, racconta di un verme con l’ombrello. Con quel verme Maria va a braccetto sotto la pioggia nei suoi sogni, ma poi le viene sete, sempre più sete e allora il verme le chiede di uccidere un pezzente, solo così potrà bere. È una persona da nulla, una cosa da nulla e allora perché non farlo. Così la cameriera dei Cimmaruta uccide e al posto del pezzente vede sorgere una fontana da cui sgorga solo sangue. Da questo incipit nebuloso e carico di nefasti presagi, si muove la pièce di Edoardo ambientata alla fine della seconda guerra mondiale, in una realtà cupa in cui tutto, soprattutto il male, è stato sdoganato, legittimato e praticato. Un’epoca che ha molte affinità con la nostra, pur essendo portatrice della grande scusa della guerra di cui la nostra non può ancora fregiarsi.
Ma a pensarci bene, una guerra c’è anche per noi ed è quella dentro la nostra anima, quella che Edoardo sa perlustrare così bene, riuscendo a farci ridere di noi stessi e a farci inorridire di noi stessi, senza neanche rendercene conto; abilità che Beppe e Toni Servillo hanno distillato con maniacale perfezione nella loro messa in scena [2] delle Voci di dentro, iniziandoci a un viaggio fonemico e ritmico senza uguali. La capacità di Toni Servillo di unire le parole in un unico flusso di pensieri in libertà è tale che avrebbe generato l’invidia in Virginia Woolf. Come le candele che si fanno in casa Cimmaruta, Servillo (in arte Alberto Saporito) è fatto di più strati di privazioni e di dolore, che posti gli uni sugli altri si trasformano in candore inatteso. Alberto dice ciò che non pensa e pensa ciò che non dice, ma alla fine bugia e verità si fondono e la candela di parole che ne risulta è inestinguibile faro sulle “piccinerie” umane. E quando Alberto Saporito parla con suo zio (Nicola), che ha scelto di rimanere muto per il resto della sua vita avendo capito che l’umanità è sorda (meraviglioso personaggio dal sapore beckettiano, che si esprime sulla scena solo attraverso lo scoppio dei suoi mortaretti), sembra anche a noi di comprenderlo, sembra anche a noi di aver superato la forma delle cose, contemplando una sostanza che nessuno può permettersi di fissare troppo a lungo.
[1] = Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo composta nel 1948 inserita dall'autore nella raccolta Cantata dei giorni dispari.[2] = In cartellone al Teatro Argentina a Roma dal 7 maggio al 2 giugno 2013.