Perciò l’evasione non è solamente un atto di “disobbedienza individuale”, ma si accompagna anche a tesi politiche la cui trama si è andata sempre più scoprendo con la crisi. Del resto il meccanismo è troppo esteso per non essere anche frutto di una complicità attiva e passiva dei governi e della politica dal reaganismo in poi. Sono le stesse cifre a denunciarlo: 680 mila società off shore, 10 mila banche ufficiali, più un circuito bancario parallelo e oscuro, un giro d’affari di 1800 miliardi di dollari di cui solo un terzo è riconducibile alla criminalità. I soli fondi scoperti grazie al “database” assommano alla metà del pil mondiale: tutto questo è impossibile senza interessi incrociati e un’ideologia talmente radicata nel laissez faire da impedire qualsiasi concreto intervento nei confronti dei paradisi fiscali. Negli ultimi 15 anni si è esportata molta democrazia del massacro dall’Irak, ai Balcani, all’Afganistan, ma quando si è trattato delle isole stato sparse per gli oceani o delle montagnose enclaves di forzieri segreti, si sono indossati i guanti bianchi e la sovranità è stata puntigliosamente rispettata. D’altronde persino lo Ior banca della Santa Sede non è certo lontana dal “paradiso” e magari hai anche l’indulgenza plenaria.
Certo non si è fatta mancare la condanna a parole, ma gli stati non hanno mai osato attentare alla “sovranità” finanziaria che è l’unica effettivamente riconosciuta. Per questo la Gran Bretagna di Cameron che ha un controllo a volte diretto a volte indiretto su una discreta fetta di questi paradisi, preferisce tagliare il welfare e annunciare tagli di tasse dalle 150 mila sterline in su, convinta che in fondo i ricchi possono essere scusati se nascondono i fondi. Per molti anni questa ventata reazionaria è stata in qualche modo sostenuta dalla religione liberista uno dei cui dogmi centrali era che la bassa tassazione dei redditi alti e altissimi avrebbe favorito l’economia. Si è visto: ha solo favorito la fuga dei capitali precostituendo un gigantesco alibi morale e “scientifico”per la loro sparizione e per il relativo impoverimento dei ceti medi e di quelli popolari. Verrebbe da chiedersi come mai il boom tedesco e quello italiano del dopoguerra, ma anche la straordinaria crescita degli Usa e in seguito quella del Giappone siano stati possibili in assenza di paradisi fiscali e in presenza invece di tassazioni che al loro massimale arrivavano al 90 per cento.
Comunque sia è del tutto evidente che chiamare i 130 mila professionisti dell’evasione “furbetti” e tirare in ballo solo responsabilità singole, è un depistaggio, un modo per nascondere l’imbarazzante esito del verbo liberista e forse anche una scusa per alleggerire il prelievo sui ricchi in modo da evitare loro le pene morali dell’evasione, ben sapendo che qualunque sia il livello di tassazione l’evasione ci sarebbe egualmente. Tanto si sa che oggi è il welfare ad essere visto come una indebita rapina.