Con questo suo ennesimo ultimo film Steven Sodebergh si è veramente superato. Perché "Behind the Candelabra" non è solo un film coltissimo e intelligentissimo, ma è, ancora di più, l'esposizione del corpo nudo e fragile di un intero sistema: è il dietro i candelabri, il retroscena dello star system e del glamour. E' il mondo sfavillante degli showman iconici che non invecchiano mai, disegnato come in una traiettoria scintillante e coloratissima.
Traiettoria, del resto, tutta pervasa di quel nulla mellifluo e materiale che si andava a formare a cavallo tra gli anni '70 e '80. Bene, tutta questa realtà pare implosa, come riassorbita, risucchiata in una dimora che è prima di tutto un museo, un tempio religioso di se stessi: gioielli, statue e oro, patine luccicanti, oasi kitch che sprofondano in paradisi pacchiani e perduti. Ma allora dove siamo? Non certo in un biopic di Liberace ma piuttosto in un racconto d'amore come contratto di possessione: si inscenano rapporti di potere che svelano un mondo di solitudine estrema. Pulsioni incontrollate come lati oscuri del desiderio, infinita e narcisistica libidine ma anche dolente, fragilissima umanità: c'è un senso di morte che pare invadere tutto il film, riflettendosi in ogni eccesso, in ogni patina, in ogni gioco di colore. Come se sotto la pelliccia si situasse un mondo già finito. E' la forma stessa di cui è composto il film, la medesima dichiarata finzione scenica, a fare corto-circuito, a dichiarare la sua essenza mortifera in ogni inquadratura.
E non si parla mai di morte senza l'ipotesi di un amore romantico e arditissimo, esclusivo e devoto: l'amore di quel fedele innamorato disposto a perdere letteralmente la propria faccia, a diventare un figlio, un sosia, un doppio di Liberace perché solo così Liberace ama: nella vana ma necessaria, duplicazione di se stesso. L'icona, per essere tale, deve vivere senza tempo e morire fuori dal tempo, non può permettersi di invecchiare né di sembrare altro da ciò che (non?) è: ecco dunque il ripetersi di operazioni di chirurgia estetica, infiniti perfezionamenti di un volto sempre più immobile, che ha perso la sua fisiognomica elasticità in favore di una maschera fissa (non è l'ipotesi di eternità il nuovo paradiso del freak nato della mani della chirurgia estetica?).
Al punto tale che il vero Liberace, un anziano fragile e senza capelli, risulti ai nostri occhi come osceno. E Michael Douglas e Matt Damon, da sempre icone di hollywoodiana mascolinità, abbandonano i loro corpi e si sanno reinventare, come non li abbiamo mai visti.
Ne risulta un film magnifico e straziante. E mentre suona il piano riecheggiano le parole di Liberace, che vola come un angelo verso un'altra stella: "Perché ti amo? Ti amo non solo per come sei, ma per come sono io quando sto con te. Ti amo non solo per quello che sei diventato, ma per quello che mi fai diventare. Ti amo perché tralasci l'eventualità della mia pochezza ed accogli le possibilità della bontà in me...Perché ti amo? Ti amo perchè distogli lo sguardo dalle mie contraddizioni e perché addolcisci la musica in me con il tuo accorato ascoltare. Ti amo perché mi aiuti a costruire la mia vita, non un tugurio ma un tempio. Ti amo perchè hai fatto così tanto per rendermi felice, facendolo senza parole senza un gesto senza un segno. L'hai fatto essendo semplicemente te stesso. Forse, dopo tutto amare significa questo. Ed è per questo che ti amo".
Piccolo post-scriptum: "Behind the Candelabra" mi sembra una sorta di epitaffio, di chiosa, di conclusione perfetta (se di conclusione si tratta, e avrei qualche dubbio) della carriera di Steven Sodebergh. Il suo è sempre stato un cinema travestito, mutaforma e multiforme: un cinema di pelle, volti e superfici che non sono mai pelle, volti e superfici. Come chi indica con un dito quella cosa lì che non è mai (solo) quella cosa lì (Magic Miike, Effetti Collaterali, Contagion, tre titoli esemplari che sono lì a dimostrarlo). Un cinema che non è quello che sembra, multidirezionale e insospettabilmente sottocutaneo. Un cinema, certo, tanto intelligente quanto teorico, pervaso com'è di macguffin, false piste e traiettorie inattese.