Facciamo un resoconto ché la lunga assenza dalle scene social lo prevede come obbligo morale, e partiamo pure dalla fine dell’estate. Estate di cui ho lungamente discettato (qui e qui), trascorsa per metà a non far nulla su una spiaggia abbandonata e per l’altra metà dietro un bancone della farmacia a urlare contro gli sciagurati consumatori seriali di medicinali di ogni genere (devo ammettere che l’odore di chimica stantia e l’aria condizionata mi hanno rinfrancato molto di più nell’animo della salsedine e del solleone).
Il mio molto romantico Squinzio per il mio compleanno ha deciso regalarmi una cena nella Parigi settembrina che manco nei miei sogni più reconditi. E la scena della consegna del regalo è stata epica, perché io da mesi ho sparso indizi perché desideravo tanto un ukulele (perché in questo mondo infame, in cui perfino le creature vogliono questi giochi nevrotici, i war games, io che vado trovando? Un ukulele. Siete autorizzati a commuovervi).
Quando a mezzanotte e un minuto del 3 luglio, sfinito dalle miei richieste assillanti, lo Squinzio se n’è venuto con una scatolina di una gioielleria degli anni ’80, io ho temuto il peggio (l’idea di un gingillo mi fa salire il vomito). Assediata dalla delusione incombente, ho aperto timorosa e sul cuscinetto di ovatta ingiallita invece di un anello ho trovato una chiavetta usb. Come sapete, io sono una dal pensiero trash facile e quindi ho immediatamente immaginato una serenata registrata del mio adorato con l’ukulele nuovo di zecca. E già mi stavo vergognando.
E invece no, il video c’era ma una lunga sequenza di disturbanti immagini lynciane con un Yann Tiersen in sottofondo (‘na roba superpostmoderna, come piace a me).
Insomma dall’accozzaglia avrei dovuto capire che si tratta di un invito a cena in un posto meraviglioso al centro del Marais, ma ho avuto bisogno di andare sulla pagina 777 di televideo per capirlo. Una cosa che Freud ci avrebbe lavorato su per un decennio. Una fuga senza sorelle veleno al seguito e senza perdere neanche un minuto al lavoro: non avrei potuto desiderare null’altro.
E quindi sbarcammo a Parigi, dopo un volo senza Lexotan che sconsiglio a viva forza a tutti i cagasotto come me (questa è chiaramente una boutade, ché si sappia che io sono fermamente contraria a tutti i modulatori dell’umore, quando non strettamente necessari).
Zompati a piè pari tutte le cose tipicamente turistiche, tipo il Louvre, l’Arc de Triomphe, gli Champs-Élysées che possono far gola solo a qualche fashionblogger de noantri, noi ci siamo immersi nel mercato delle pulci a Porte de Vanves, sorseggiando vino rosso e piluccando baguette e brie (perché certi clichè sono troppo spettacolari per essere snobbati).
Senza mai perdere di vista la Tour Eiffel che per me è l’ottava meraviglia del mondo. A tutti gli amanti dei tour gastronomici consiglio lo Chez Marianne, perché il cameriere che serviva ai tavoli è la dimostrazione vivente che i cugini francesi sono antipatici e spocchiosi e per questo estremamente amabili (e poi perché i loro felafel sono i migliori al mondo).
Inoltre se siete un po’ vegani, un po’ bio, un po’ cacatari come la sottoscritta non potete perdervi il Potager du Marais, dove cucinano le leccornie più spettacoli alla faccia di chi soffrigge pure l’anima (per rendere l’evento gastronomico ancora più memorabile, il mio Squinzio appena varcato l’uscio del ristorante ha fatto cadere il suo iphone spargendo una quantità immonda di vetri).
Naturalmente non poteva mancare la grande sfida tra i macarons più buoni della città ovvero PierreHermes vs Laduree, consumati nel parco dell’Ile de la Citè (come da pronostici, Pierre ha brutalmente stracciato la concorrenza).
La fuga brevissima si è conclusa con una romantica nottata in aeroporto, con lo zaino al posto del
cuscino, rigurgiti della memoria dei bei tempi dell'erasmus.Alle 9.30 del lunedì io già ero in farmacia, con la sgradevole sensazione del jet lag e i panni che puzzano di stanchezza. Felice.