e vecchie identità
Al Centre Pompidou di Parigi
una grande mostra analizza
la scena contemporanea
di New Delhi e BombayA salutare all’entrata i visitatori c’è un’enorme testa di donna con pelle d'oro, capelli guarniti di fiori, labbra rosse vivo e occhi spalancati. Questa spettacolare scultura popartigianale, realizzata in resina poliestere da Ravinder Reddy, funziona come perno centrale attorno a cui si sviluppa più o meno a raggiera l’articolato percorso espositivo della mostra che il Centre Pompidou ha voluto dedicare alla situazione attuale dell’arte contemporanea in India, una scena artistica molto vitale che ha incominciato a decollare anche a livello internazionale solo nell’ultimo decennio.
Il progetto dell’esposizione è ambizioso. Da un lato si è cercato di documentare come gli artisti indiani hanno messo in gioco nei loro lavori gli aspetti più significativi e contraddittori dello straordinario processo di cambiamento in atto nel loro Paese. E dall’altro lato si è voluto creare un contrappunto occidentale chiedendo a un gruppo di artisti francesi di produrre delle opere dedicate espressamente alla loro visione dell’India. Ed è per questo che la mostra (sulla scia delle passate iniziative incentrate sui rapporti fra Parigi e altre grandi città come New York, Berlino, e Mosca) si intitola «Paris-Delhi-Bombay». Ma siccome non ci sono stati o quasi, nella storia dell’arte moderna e contemporanea, interscambi così significativi fra Francia e India, l’idea finisce per essere un po’ debole. Meglio sarebbe stato, con meno nazionalismo, fare una scelta più internazionale di artisti «occidentali».
Detto questo la mostra è senza dubbio molto interessante. Il punto di partenza è una grande sala rotonda (quella occupata al centro dal testone di Reddy) dove ci sono informazioni scritte e visive, che mettono a fuoco sinteticamente le sei grandi tematiche che si ritrovano, elaborate nei modi creativi più diversi, dai cinquanta artisti attraverso pitture, sculture, assemblage, installazioni, performance, foto e video. Queste tematiche sono: la politica; la dimensione urbana e quella dell’ambiente; le tradizioni religiose; l’identità (nazionale, regionale, linguistica, sessuale, di casta); la famiglia; e lo scarto fra artigianato e nuove tecnologie.
Ma per apprezzare al meglio le opere esposte è preferibile muoversi liberamente tra le sale perché così si arriva a comprendere lo spirito complessivo che caratterizza la nuova arte indiana, che ha una sua forte identità anche se estremamente aggiornata dal punto di vista delle forme di linguaggio utilizzate (non a caso dietro molti artisti ci sono ormai grosse gallerie internazionali).La caotica situazione dei conglomerati urbani, del traffico asfissiante e dei tragici contrasti fra quartieri ricchi e miseria infinita delle bidonville è il tema di lavori molto forti. Affascinante e poetica è la ricostruzione, su due grandi pareti, della più grande e disgraziata bidonville dell’Asia.
Questa installazione di Hema Upadhyay è una minuziosa ricostruzione in miniatura di quegli slum visti dall’alto, fatta con pezzi di latta e altri materiali di scarto. Anche altri artisti come Vivan Sundaram o Dayanita Singh, con mezzi fotografici, documentano il trionfo dei rottami urbani riciclati, o aspetti suggestivi di vita in strada.
Più surreale è la strana scultura in resina di Jitish Kallat che presenta, con intelligente ironia, un incrocio metamorfico fra uno scheletro bovino e una moto Enfield. In una sala accanto troviamo l’installazione di quello che, a parte Kapoor, è il più noto degli artisti indiani, Subodh Gupta, che anche qui riempie lo spazio con una accumulazione ossessiva di pentole e altri utensili di cucina in acciaio, che alludono alla contraddittoria e drammatica situazione indiana dell’alimentazione. La video installazione di Amar Kanwar, tra le opere più belle in mostra, affronta il tema delle minacce di distruzione ambientale di un territorio (quello di Orissa) a causa di devastanti interessi speculativi.
Altrettanto bella e profonda è l'installazione ambientale (con elementi dipinti rotanti e video proiezioni) di Nalimi Malani, l’artista più vecchia in mostra, che si occupa della drammatica condizione delle donne evocando conflitti religiosi e politici. Sulla condizione della donna, ma da tutt’altra prospettiva, è incentrato anche il lavoro di Bharti Kher, che mette in scena una serie di specchi con cornici baroccheggianti (omaggio ironico a Versailles), specchi rotti e ricoperti da una miriade di «bindi», i «terzi occhi» che si mettono sulla fronte le donne sposate. Dal canto suo l’attivista gay Sunil Gupta presenta una sorta di fotoromanzo per far riflettere sulla situazione degli omosessuali nel suo Paese.
Per quello che riguarda il tema della politica, l’opera più affascinante e inquietante è all’apparenza solo una innocente ghirlanda di fiori rossi, tipo quelle che si mettono al collo delle divinità hindu. Ma questa ghirlanda Sunil Gawde l’ha realizzata con taglienti lamette da barba colorate per alludere alla violenza del fondamentalismo religioso che proprio con una ghirlanda imbottita di esplosivo aveva ucciso Rajiv Gandhi.
Ci sono poi anche lavori che puntano chiaramente a una teatralizzazione simbolica più evidente. È il caso della divertente e fantasiosa costruzione plastica di Riyas Komu, che appare come una specie di gioco di calcetto a taglia reale con undici paia di gambe scolpite in legno, e la scritta «Dio è grande», che vorrebbe far riflettere sugli ingredienti costitutivi dell’«oppio dei popoli».
All’apertura e alla chiusura della mostra c’è un'emblematica opera double face di Krishnaraj Chonat: all’inizio si vede un grande muro ricoperto di rottami di schermi, fili, mouse di computer, e alla fine (si tratta della stessa parete, davanti e dietro) un muro con profumate mattonelle fatte di profumato sapone di legno di sandalo: le due facce dell'India d’oggi.
FRANCESCO POLI
Centre Pompidou25 mai - 19 septembre 2011
11h00 - 21h00
Photo credit: http://www.flickr.com/photos/ajoamb/5793566675/in/photostream/
Paris - Delhi - Bombay... di centrepompidou