“Parlo tutte le lingue, ma in arabo”. Il Marocco e il suo “multilinguismo” nel saggio di Abdelfattah Kilito

Creato il 06 ottobre 2013 da Chiarac @claire_com_

di Annamaria Bianco

Il Marocco è una terra da sempre crocevia di culture, lingue e popoli mediterranei (e non solo). Districarsi tra l’arabo classico, il darija (il dialetto) e le lingue europee è una sfida che mette alla prova qualsiasi arabista, e per questo motivo il Marocco si configura come una tappa obbligata per gli studiosi di linguistica.

L’ultimo libro di Abdelfattah Kilito*, Je parle toutes les langues mais en arabe (Parlo tutte le lingue, ma in arabo, Actes Sud, 2013), non ancora tradotto in italiano, costituisce una formidabile riflessione su questa realtà quotidiana, fondata sull’esperienza personale dello studioso marocchino, sui suoi viaggi ed i suoi studi letterari. Tuttavia il lavoro, offrendo importanti spunti di linguistica interculturale, può risultare d’interesse anche per altri ambiti di ricerca.

Mi ci sono imbattuta per caso fra gli stand di Actes Sud, alla Fiera del Libro di Parigi alcuni mesi fa, ed il titolo -preso in prestito da Kafka- mi ha folgorata, spingendomi ad acquistarlo. Leggerlo è stata un’esperienza incredibilmente arricchente. Articoli, atti di conferenze e appunti redatti tutti alla prima persona, con erudizione ed umorismo, sono raccolti in tre sezioni composte di brevi capitoli, che costituiscono le tappe principali del pensiero di Kilito nei confronti di problemi che affliggono la letteratura araba sin dall’età classica, inquadrati nella secolare dialettica identità/alterità della civiltà islamica: Comment peut-on être monolingue? (Come si può essere monolingue?), Tu ne me traduiras pas (Tu non mi tradurrai) e Dia-Logos.

Partendo dal presupposto che non ci si libera mai del tutto dalla propria lingua madre, almeno nella dimensione dell’oralità, l’autore affronta le tematiche della traduzione, del bilinguismo letterario, delle origini del romanzo arabo e dell’evoluzione della letteratura marocchina contemporanea negli strascichi del colonialismo.

Le sue considerazioni si alternano agli esempi forniti dai capolavori della letteratura mondiale come Don Chisciotte, il classico de Le Mille e una notte , i grandi scrittori arabi e non, fra cui Ǧāhiz, Petrarca (il quale, ho scoperto con una certa vergogna, ha bistrattato un po’ la poesia araba!), Goethe, Ibn al-Muqaffa’, Dante, Ma’arrī e Roland Barthes; fumetti e altri personaggi come Hercule Poirot o Amélie Nothomb: il risultato è un insieme di analogie e collegamenti inaspettati –e forse anche un po’ bislacchi- ma efficaci nella loro forza comunicativa.

Particolarmente interessante è il suo approccio all’esistenza di un patrimonio letterario endogeno, di cui non si dichiara certo, o almeno non ancora. Una storia della letteratura locale manca, così come mancano testi d’appoggio e manuali, anche e soprattutto, sostiene lo studioso, a causa dell’ingerenza del francese e della presenza di professori egiziani nelle scuole, che prediligono la loro eredità culturale.

Non sappiamo niente della letteratura marocchina, antica o moderna, niente di quel mondo parallelo, riflettente, duplicatore, che è solitamente una letteratura. Viviamo nell’idea che la nostra lingua madre sia bastarda, degenerata, indegna della letteratura e della scrittura. Certo, a casa si imparano canzoni, ci raccontano storie, indovinelli, filastrocche, proverbi, massime e detti, ma questa è letteratura?” (p. 45)

Interrogativi legittimi ma che conducono a loro volta ad un’altra fondamentale domanda: in che lingua scrivere?

Al francofono si chiederà perché non scrive in arabo, tenendo presente che l’arabo è il collante di un’intera area geografica che va dall’ “Oceano al Golfo”. Ma chi scrive in arabo non verrà mai posto dinanzi al problema opposto: non deve giustificarsi né legittimare la propria decisione linguistica. Ma si tratta davvero di una scelta libera?

La domanda, per Kilito, non acquista senso effettivo se non completata da un’altra, erroneamente trascurata: in che lingua leggere?

Chi non è perfettamente bilingue avrà difficoltà nell’approcciarsi ai testi originali e non sarà in grado di cogliere delle sfumature che vengono necessariamente perse nella traduzione. Ciò che conta per Kilito tuttavia non è la fedeltà di un testo, bensì gli effetti che quest’ultimo suscita nel lettore, che non si troverà dinanzi ad una limitazione vera e propria nella sua esperienza di lettore, ma a delle differenze. Obbligate, ma comunque belle. Da cui discende l’importanza e la responsabilità che il ruolo del traduttore porta con sé.

I traduttori di tutto il mondo sono avvisati.

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*Abdelfattah Kilito è nato nel 1945 a Rabat ed è docente presso la Facoltà di Lettere dell’Università Mohammed V, ma ha insegnato anche a Parigi, Princeton e Harvard. È autore di una decina di saggi, alcuni dei quali tradotti in italiano: L’autore e i suoi doppi. Saggio sulla letteratura araba classica (Einaudi, 1988) e L’occhio e l’ago. Saggio sulle Mille e una notte (Il Nuovo Melangolo, 1994); di un romanzo, La Querelle des images (1995), ed una raccolta di racconti, En quête (1999).

Più recentemente sono apparsi per Mesogea: Esplorazioni (2006) e Tu non parlerai la mia lingua (2010). Nel 1989 ha vinto il Grand Prix du Maroc e nel 1996 il Prix du Rayonnement de la langue française attribuito dall’Accademia di Francia.


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