Non ricordo il mese il giorno,
forse l’anno sì, ma tacerne è bello,
di quando ti toccai il ginocchio
nel tram nell’ora più affamata del giorno.
Lambrate puzzava di fritture e giornali,
l’odore del treno era un’eredità infelice;
tra i viaggiatori stanchezza e frustrazione
per i falliti palpeggiamenti
al momento di scendere.
Poi il sole argentato di Milano ci ferì gli occhi
e ci rifugiammo sul 23, lindo nel suo consunto vestito arancione,
mentre in mezzo alla piazza affollata
danzavano tram più belli e sensuali di lui.
Partimmo, lentamente,
e pattinammo sulla malinconia, leggeri,
fino a via Leonardo da Vinci.
Poi cambiò tutto, perché accadde il fatto,
e l’orizzonte si colorò delle mie domande vane,
quando con la mia mano ti toccai…
Verdeggiavano attorno le villette di via Pascoli
nascendo e morendo contro i finestrini zozzi,
mentre sotto di noi il lamento dei binari era infernale,
ma nessuno vi badò, tranne me, e il cagnolino di quel cieco
che sostava sulla piattaforma, ignaro del mondo.
Tu non t’accorgesti del mio tocco,
né delle palazzine stile anni ’20,
e neppure del sudore che abbelliva le mie unghie,
scavate dalla corde di chitarre un po’ scordate.
Indossavi pantaloni pesanti
ed eri distratta da malinconie tenaci
che il risucchio dei finestrini aperti
non riusciva a scacciare.
Belle le tue ciglia orlate di tristezza!
Mamma mia, come volava il tempo,
e come la strada fuggiva via, tra ferro e carne,
e quando ci trovammo quasi in piazza Cinque Giornate
compresi che il mio fallimento era vicino:
ero stanco di essere incompreso dai tuoi ormoni,
mentre tu apparivi felice di essere bramata dai viaggiatori del tram,
(tranne il cieco e il cane)
e dai loro giornali neri senza figure.
Non volli interrompere il tuo soliloquio
misterioso su quel sedile di legno;
e muto tra la folla studentesca
osservai le borse e le sciarpe e le scarpe,
fino a sentirmi l’unico essere vivente,
a quell’ora, sebbene non sapessi perché.
Milano si preparava alla pappa,
il tram si fermò troppe volte,
era lento, sbadigliante,
e sbadigliando sorrisi allora mi chiedesti
(con gli occhi un po’ meno disperati)
quando saremmo arrivati.
Io m’ero dimenticato di tutto, distratto,
e nella dolciastra aria putrescente
del mezzogiorno metropolitano,
non ti risposi nulla, ingrata compagna di viaggio
e occasionale desiderio di sessualità timida.
Comunque mancava poco:
Corso di Porta Vittoria era finito,
io ti avevo toccato il ginocchio
e tu non te ne eri accorta…
Se solo tu fossi stata meno eterea,
un po’ più sporca e meno poetica,
avrei forse smesso di contemplare
le altrui scarpe fangose in quel vecchio tram…
Ma il tempo, quel giorno, non era per te,
ma solo per le foglie che volteggiavano in aria,
per gli alberi felici di denudarsi davanti a noi
e per quel tram legnoso che avanzava inerte
esasperando passeggeri e binari.
Ecco Piazza Fontana, l’ultimo giro,
l’ultimo tentativo di farti innamorare di me,
raccontandoti la storia della banca e della bomba…
Niente. Muta. E intoccabile… tu.
Milano era ora avvolta da nuvole marroni,
e la piazza sembrava imbronciata,
come se non volesse rassegnarsi a essere un passaggio
verso il Duomo che biancheggiava lontano,
con le guglie bagnate da caligini d’altri tempi.
Scendemmo muti dall’amato 23. Almeno da me.
Odore di panini guasti e digestioni lente
folleggiava nell’aria.
Mozziconi di sigarette e parole fumanti
agonizzavano sull’asfalto.
Semafori ora sempreverdi acceleravano la fine
delle mi speranze verso di te.
Tu avevi fretta e non guardavi dove attraversavi.
Io arrancavo affamato e mesto,
desideroso di salvarti la vita.
Ma nessuno cercò di ammazzarti.
Attraversammo la via Larga senza parlare,
e io inciampai sui binari di altri tram,
aristocratici e altezzosi, moderni,
ma tu non te ne accorgesti. Perché?
Ci salutammo con un “arrivederci” senza futuro
e mi baciasti avaramente su una sola guancia,
per poi svanire inghiottita dalla folla.