Parte seconda – un ripensamento complessivo

Creato il 18 dicembre 2012 da Conflittiestrategie

1. Ribadisco innanzitutto che la crisi economica è fenomeno di superficie (“terremoto”), dovuto alla generale forma di merce assunta da ogni (o quasi) prodotto dell’attività umana nel sistema capitalistico, implicante l’uso della moneta, e dei mezzi ad essa equivalenti, nello scambio tra i vari soggetti. E’ indispensabile distinguere una vera crisi da quelle che talvolta passano per tali, ad esempio l’estrema labilità delle Borse valori, soggette a continue e talvolta assai ampie oscillazioni; per non parlare dello spread (differenziale tra gli interessi pagati sui titoli del Debito pubblico dai vari Stati, di cui si è preso ossessivamente in considerazione quello tra Germania e Italia), che è diventato la “moda corrente” nell’attuale crisi; iniziata nel 2008 senza che in pratica nessun “esperto” di problemi economici l’avesse prevista e pressoché tutti l’abbiano per un bel po’ sottovalutata.

Le “crisi” dell’ultimo tipo citato dipendono da fenomeni speculativi sul denaro e i titoli; inoltre possono essere con un certo successo manovrate in senso politico per conseguire dati obiettivi, ad esempio il cambio di un governo o comunque una serie di operazioni che conducono dati paesi ad una maggiore dipendenza da altri; dipendenza comunque già in atto per ben altri motivi più cogenti. Le vere crisi economiche – caratterizzate da crolli improvvisi e catastrofici (tipo 1929) o invece da un lungo periodo di sostanziale stagnazione (tipo quella di fine secolo XIX, 1873-96, cui tende sempre più ad assomigliare la recente crisi generale di sistema del 2008) – non sono affatto controllabili e manovrabili da nessuna forza economica e politica. La prima di quelle da potersi considerare capitalistica si manifestò nel 1816. Tuttavia, essa ebbe ancora ampi caratteri di carestia, essendo dovuta a particolari condizioni climatiche che influirono sull’agricoltura; di conseguenza fu in qualche modo simile alle crisi delle epoche precapitalistiche, quando l’agricoltura era nettamente predominante. Nel 1816 siamo già nel pieno della prima rivoluzione industriale (1760-70/1830-40), ma evidentemente quello che Marx denominò modo di produzione specificamente capitalistico non si era pienamente formato (e affermato).

Da allora, e sempre più, le crisi divennero capitalistiche nel loro senso peculiare: niente carestia, sempre più ingorgo dei mercati invece, cioè una domanda (di consumo e di investimento) che non tiene dietro all’offerta (produzione) di merci. Peculiarità della crisi capitalistica è il suo scatenare un processo d’impoverimento della popolazione nel bel mezzo di un’accentuata crescita della produzione per il mercato, che ad un certo punto resta però in buona parte invenduta mettendo in moto, come già considerato, il circolo vizioso della crisi stessa. Soprattutto (non esclusivamente) quando si andarono formando le grandi società per azioni, già a metà ‘800 e poi sempre più, le crisi furono accompagnate da gravi perturbazioni nei mercati dei titoli (azioni, obbligazioni, ecc.). Anzi, l’apparenza non fu quella dell’accompagnamento, bensì dell’impulso impresso alla crisi da un grave crollo dei prezzi in Borsa. All’inizio la crisi si manifesta dunque nel suo aspetto finanziario, il quale è stato caratteristico in particolare dei gravi sprofondamenti del tipo 1907 e 1929.

Proprio tale prima fase della crisi, caratterizzata da bruschi fenomeni di tracollo dei prezzi in Borsa, consente agli “esperti”, ai “tecnici”, una serie di fughe ideologiche. Si parte sempre dall’accusa ai finanzieri, in specie ai banchieri, di aver esagerato nella loro specifica funzione per ingordigia di profitti. Li si rende anche responsabili di una serie di non ottemperanze a date regole, sempre più complicate, che si sono andate formulando e consolidando nella lunga storia del capitalismo. Qualche volta si parla persino di un comportamento “non etico” da parte di chi svolge funzioni di notevole rilevanza in merito alla fornitura dei mezzi essenziali per l’attività produttiva. In un sistema economico fondato sulla generalità degli scambi mercantili, nessuna produzione, condotta da singoli “soggetti” (le unità produttive denominate imprese), può essere iniziata se non a partire dal possesso di denaro (o equipollente) con cui acquistare i “fattori” produttivi; e buona parte di questo mezzo monetario è fornita appunto dal sistema bancario, nervatura centrale di quella che viene complessivamente detta finanza.

Di conseguenza, quando si manifesta il tipico carattere capitalistico della crisi – l’ingorgo di merci invendute con conseguente diminuzione dell’attività produttiva – il fenomeno che si manifesta con maggiore evidenza, indicato allora come causa dell’evento, è appunto il “cavallo che non beve”; fuor di metafora, ciò significa che l’imprenditore non chiede più denaro in prestito poiché gli mancano le occasioni di proficuo investimento. Egli si trova inoltre in difficoltà nel restituire i prestiti già ottenuti in passato quando ancora l’economia “tirava” e la domanda era sostenuta. Data l’autonomia di funzione acquisita dal settore bancario rispetto a quello industriale, il primo (l’apparato finanziario) usa l’influenza anche politica di cui ormai gode per ovviare ai peggiori effetti che la crisi ha su di esso; e ci riesce in genere con qualche successo (spesso temporaneo), approfittando però, soprattutto, della configurazione del sistema produttivo (in specie industriale) che vede in campo, oltre alle grandi imprese (con influenza nei mercati e nella sfera politica non inferiore a quella delle banche), una miriade di piccole attività, ad esempio il cosiddetto artigianato, il lavoro “autonomo” (che lo è assai poco nei fatti), dotati di assai minore forza e capacità di “pressione” sulla politica.

Tutto questo fa dimenticare per troppo tempo il lato reale della crisi, cioè la diminuzione dell’attività produttiva e quindi del reddito di gran parte della popolazione, con l’innescarsi di fenomeni negativi ben più duraturi – sebbene all’inizio meno appariscenti di un crollo di Borsa e del fallimento di alcune banche – che prendono gradatamente il davanti della scena con i loro vasti effetti sociali di disoccupazione e povertà diffusa. A questa la gente tenta di resistere – soprattutto nei paesi capitalisticamente avanzati – intaccando i risparmi accumulati negli anni buoni. Anche per questo motivo la crisi reale, implicante il depauperamento di un’ampia quota della popolazione, si sviluppa con maggiore gradualità, interpretata spesso dai gazzettieri ed “esperti” come “luce in fondo al tunnel”, preannuncio della fine della crisi, prospettive di miglioramento per il futuro, che si fa attendere molto a lungo.

Si pensi sempre al caso esemplare del 1929-33. In una settimana di ottobre (dal giovedì 24 al terribile martedì 29, i due “giorni neri”) si scatenò l’inferno; però in Borsa, presso certi Istituti finanziari, nelle pagine dei giornali, alla radio e media in genere. La “gente” fu all’inizio colpita soprattutto emotivamente. Tuttavia, con il passare degli anni, non dei mesi, essa si rese conto della netta diminuzione del proprio tenore di vita e, per una sua discreta parte, della perdita delle proprie riserve; pur nello sfavillio, invece, di quegli “anni ruggenti”, anche a causa del proibizionismo e degli affari che arricchivano i malavitosi. In realtà, nel 1932-33, ben dopo l’ottobre nero della Borsa, si videro non i crolli di Borsa, bensì le lunghe file di disoccupati con gavetta in mano alle mense pubbliche; una scena che entrò nel cinema, perfino ad esempio nel genere leggero del musical con La danza delle luci (1933, appunto), di Mervyn Le Roy, impreziosito dalle grandi scenografie di Busby Berkeley (un film primatista di incassi e che, nel 2003, è stato selezionato per la conservazione negli Stati Uniti dal National Film Registry della Biblioteca del Congresso in quanto “culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo”).

2. Malgrado quanto appena detto, gli “esperti” e “tecnici” dei nostri tempi continuano a raccontarci della crisi finanziaria e degli sforzi congiunti dei vari paesi (ognuno in lotta per i suoi interessi, soltanto fingendo la cooperazione internazionale) per superarla. Ogni tanto attribuendo colpe a questo o a quello: prima è stata presa di mira la Cina per la sua ostinazione a non voler svalutare la propria moneta, ultimamente è venuta di moda la Germania che predomina nella UE e imporrebbe scelte dannose agli altri paesi, in particolare all’Italia; e via dicendo in un crescendo di banalità e di falsi obiettivi (più o meno polemici). Ogni tanto, timidamente, si accenna alle manovre degli Stati Uniti e della sua Federal Reserve (la Banca Centrale Federale), che non sarebbero proprio ortodosse e tramite le quali si cerca di scaricare la crisi su altri paesi. Tutto si dice salvo che affrontare il nodo centrale della questione.

Torniamo alla grande crisi del 1929. Già si è ricordato nella prima parte come il New Deal, varato nel 1933 e durato fino al ’37, avesse prodotto una qualche ripresa dell’economia per alcuni anni, due-tre al massimo. Probabilmente già nel ’36, ma sicuramente dal ’37 e fino alla seconda guerra mondiale, la situazione tornò critica. Non ci furono crolli di Borsa eclatanti ma la produzione e l’occupazione restarono però quelli di una fase di sostanziale depressione. Qualche dato tanto per dare un’idea del problema. Fatto 100 il reddito Usa del ’29, esso fu 89 nel ’37, 81 e poi 79 nel ’38, 85 nel ’39. La produzione industriale seguì più o meno lo stesso andamento (forse con un piccolo miglioramento solo nel ’37). L’occupazione nell’industria, prendendo come base addirittura il periodo (di crescita) ’23-’25, vede l’indice a 111 nel ’37 (ultimo anno del New Deal), ma poi a 91 e 84 nel corso del ’38 e a 96 nel ’39. Al di là di queste poche indicazioni, la realtà fu comunque di stagnazione, di difficoltà a far ripartire il sistema economico statunitense. In ogni caso, la politica inaugurata con la presidenza Roosevelt nel 1933 si chiuse quattro anni dopo, alla sua rielezione; non escluderei che ciò sia stato dovuto anche alla constatazione del raggiunto limite delle sue capacità di riavvio economico.

Dopo la guerra si ebbe invece, con differenti periodi di innesco, una nuova intensa crescita che interessò quasi tutte le economie del cosiddetto campo capitalistico. A parte gli Stati Uniti – che già durante il conflitto mondiale produssero a pieno regime, non avendo avuto problemi di distruzioni sopportate direttamente sul proprio territorio – negli altri paesi avanzati, colpiti duramente, ci fu una certa difficoltà di ripresa. Tuttavia, chi prima e chi poi, essi crebbero economicamente in modo notevole. Il Giappone fu uno dei primi a mettersi in moto e con un ritmo di aumento del Pil piuttosto simile a quello cinese degli ultimi decenni. La spiegazione, molto spesso ideologica, addusse varie motivazioni. In primo luogo, l’aiuto dei “liberatori” americani (ad es. il Piano Marshall tra il 1947 e il 1951, limitato comunque ai paesi europei); inoltre, le esigenze della ricostruzione. Per alcuni, e con riguardo del tutto prevalente agli Stati Uniti, fu importante la forte spesa bellica, legata all’esigenza del confronto con l’Urss, alla “gara” spaziale, e via dicendo.

Fu anzi formulata, da critici del sistema capitalistico, una particolare versione del keynesismo, che si potrebbe definire “militare”. La “guerra fredda” implicò la crescita dell’armamento nonché la sua continua manutenzione, assai costosa, e l’innovazione. Si trattava di forti investimenti (domanda dei “fattori” di produzione) per fabbricare una gran massa di beni, che non affluivano certo al mercato; e anzi venivano logorati e distrutti negli usi bellici con ulteriori spese di conservazione, riattamento e sostituzione. La produzione di armi creava dunque fonti di reddito per coloro (capitalisti e operai) che erano impegnati in tali settori, con conseguente crescita della domanda senza che quei beni andassero ad ingorgare i mercati di vendita con la loro offerta.

In un certo senso, la situazione potrebbe essere assimilata a quella dell’affermazione fatta da Keynes (per paradosso, ma significativo del reale significato della sua teoria): sarebbe al limite utile pagare salari ad operai che scavassero buche e poi le ricoprissero, con distribuzione di reddito e di potere d’acquisto senza produrre beni da offrire nel mercato. Il nuovo potere d’acquisto si sarebbe dovuto dirigere verso strutture produttive già esistenti ma inutilizzate, che sarebbero state rimesse in funzione, assumendo operai disoccupati, con rilancio (moltiplicato) della domanda (di beni di consumo e di produzione) prima depressa dalla crisi.

Accettando un simile punto di vista, il crollo del “socialismo reale” e soprattutto dell’Urss avrebbe dovuto creare una nuova difficoltà nello sbocco dei beni nel mercato con l’accentuarsi degli elementi di crisi; se soltanto, però, l’industria bellica statunitense si fosse riconvertita a produzioni “civili”, cosa mai accaduta poiché dal 1991 le continue imprese belliche statunitensi non hanno concesso requie al bilancio militare.

Resta il fatto che il lungo periodo del mondo bipolare sembrò aver decretato la fine delle gravi crisi del tipo di quella del 1929; si parlava ormai di più o meno forti recessioni, sempre considerate effetto di determinati eventi particolari (ad es. le crisi petrolifere del 1973 e 1979) e tutto sommato controllabili con manovre varie della politica monetaria (ad es. i movimenti del saggio di sconto effettuati dalle Banche Centrali) e l’uso della spesa pubblica quale volano dell’andamento sinusoidale dell’economia. A partire dagli anni ’80, in cui si verificò la rivincita del (neo)liberismo, si ricominciò con il tema del debito pubblico, se ne incolparono le spese eccessive per il mantenimento dello Stato sociale; in Italia si puntò molto sulle motivazioni politiche del gonfiarsi di una spesa pubblica “clientelare”, particolarmente dissipatrice di ricchezza sottratta alla disponibilità dei cittadini e dei settori privati; s’incolpò il “compromesso storico” (l’accordo più o meno sottobanco tra Dc e Pci), ecc.

Argomentazioni, sia chiaro, non prive di un qualche punto di tangenza con la “realtà” e tuttavia non soltanto enfatizzate, ma soprattutto responsabili – in parte consapevolmente e in parte no – della mancata riflessione su altri movimenti politici e sociali il cui verificarsi rappresenta il principale motore delle crisi economiche, in quanto fenomeni “di superficie”, gli eventi più visibili e immediati nel colpire emotivamente chi ne subisce le conseguenze. Siamo così arrivati al 2008, anno in cui scoppia la crisi talvolta paragonata al 1929 o al suo preannuncio; sono in molti, come al solito, ad addebitarla alle disfunzioni di istituzioni, soprattutto finanziarie, per colpa del lassismo e/o incompetenza di determinati soggetti che le amministrano. Comunque, sopra a tutto viene posto il problema dell’eccessiva spesa pubblica (in specie per le “esagerazioni” verificatesi nel campo pensionistico e sanitario) e del conseguente debito statale e di enti pubblici vari. Tale debito – si ulula da tutte le parti – va contenuto e si deve inoltre tendere al pareggio di bilancio, all’equivalenza tra uscite ed entrate (fiscali). Da qui tutta la serie di misure che stanno deprimendo ancor più l’economia in Europa; particolare menzione merita l’Italia con il presente governo.

Molti si chiedono se i vertici dei paesi europei (e degli organismi della UE), e soprattutto quelli italiani, siano o meno consapevoli del disastro provocato con il puntare (almeno nelle dichiarazioni ufficiali) alla riduzione del debito mediante misure che riducono in realtà la capacità d’acquisto e il tenore di vita della maggior parte della popolazione, non risolvendo affatto il problema in oggetto – come si constata in Italia dove il debito pubblico è sempre in aumento – e aggravando invece la crisi economica reale. Difficile rispondere a simile domanda inquinata da problemi eminentemente politici, di cui sono in parte consci i dirigenti della potenza ancora centrale nell’area cui appartiene il nostro continente, i vertici statunitensi, con la loro neostrategia del caos non ancora ben conosciuta, che forse procede un po’ a tentoni, ma non deve comunque lasciar solidificare in Europa forze che si oppongano loro con decisione. In particolare, il nostro paese deve divenire sempre più una sorta di “base” per operazioni future di cui ancora non valutiamo con sufficiente approssimazione la portata e gli obiettivi. Comunque, torniamo un passo indietro, alle cause delle crisi.

3. Alla fine del secolo XIX, come ho ricordato più volte nei miei scritti, vi fu una lunga fase di stagnazione economica durata circa un quarto di secolo (1873-96), subito dopo la guerra (1870-71) in cui la Prussia sconfisse rovinosamente la Francia, mettendola di fatto fuori gioco nella competizione che si stava aprendo per la successione all’Inghilterra quale potenza egemone. La fase in questione coincide in parte con la seconda rivoluzione industriale, che vede la decisiva e sempre più accentuata inversione del rapporto tra agricoltura e industria proseguendo poi, all’inizio del secolo successivo, con il crescente diffondersi del motore a scoppio e dell’industria automobilistica (e subito dopo di quella aerea, ecc.), con la nuova organizzazione del lavoro denominata in seguito taylorismo-fordismo (a partire dal secondo decennio del ‘900), ecc.

La fine “ufficiale” di detta grande depressione, fissata al 1896, precede di un decennio la prima grande crisi novecentesca del 1907, che anch’essa – come lo fu poi quella del ’29 – sfociò in un periodo di debole e incerta crescita economica, risolto dalla prima guerra mondiale, dopo la quale si ebbe un periodo, di nuovo decennale, di accentuata crescita economica; salvo che nell’ex impero asburgico, dissoltosi, e nella Germania della Repubblica di Weimar, la cui cronica crisi condurrà infine alla svolta politica degli anni ’30. Negli Stati Uniti, in particolare, si verificò negli anni ’20 una continua e notevole espansione economica.

La stagnazione della fine secolo XIX non fu generale; riguardò in particolare il centro del sistema economico e politico dell’800, l’Inghilterra, la Francia sconfitta dalla Prussia e altri paesi soprattutto europei. Negli Usa e in Giappone essa fu assai meno sentita, poiché si trattava di paesi comunque in crescita di potenza (come lo sono ad esempio oggi Cina, India e altri pur se la crisi del 2008 comincia a ridurre i loro tassi di aumento del Pil). Si deve inoltre ricordare che alcuni, a mio avviso in modo errato, considerano la depressione di fine ‘800 quasi un’invenzione degli storici, poiché in effetti non vi fu una generale e netta caduta del reddito prodotto, semmai una sua stasi con anni di modesto innalzamento; si manifestò invece la deflazione dei prezzi, da alcuni considerata quasi un fenomeno nettamente positivo e da ascrivere più allo sviluppo che alla crisi. In realtà, si trattò della fase in cui si andarono preparando eventi estremamente drammatici quali quelli che si produssero nella prima metà del secolo XX: le grandi crisi economiche (soprattutto, come già detto, quella del ’29) e, in particolare, le due guerre mondiali.

La fase in questione caratterizzò la prima parte dell’età detta dell’imperialismo, dove con questo termine – al contrario di quanto poi precisò Lenin nel suo celebre opuscolo del 1916 – s’intendeva semplicemente il colonialismo. Lasciando adesso perdere il periodo precedente (anche la Spagna fu una potenza coloniale), si può ben dire che, in tutta la prima metà dell’800, la grande potenza coloniale fu l’Inghilterra; ed essa era appunto, in particolare dopo il Congresso di Vienna (1814-1815), il paese capitalistico più forte e sviluppato. Non fu certo un caso che l’analisi del capitalismo compiuta da Marx si accentrasse su tale paese, considerato un laboratorio della nuova formazione sociale poiché in esso, nel decennio 1830-40, poté considerarsi conclusa la prima rivoluzione industriale – con sostanziale rovesciamento del rapporto tra industria e agricoltura – che era invece in ritardo nel continente europeo e negli Stati Uniti, pur se andava qui accentuandosi il contrasto tra nord industriale e sud agricolo (cotoniero).

A partire dalla seconda metà del XIX secolo, e specialmente dal 1870, si accentuò lo scontro tra i vari paesi capitalistici avanzati per la conquista delle colonie; e per la redistribuzione di quelle già acquisite (ci si ricordi che anche la Francia aveva possessi coloniali di rilievo pur se si era indebolita, come già messo in luce, con la sconfitta nella guerra del 1870-71). L’età dell’imperialismo si caratterizza allora come fase storica dell’accentuata lotta per la conquista e spartizione di colonie. Questo seguito di eventi deve far riflettere. L’Inghilterra non era più il paese dotato di una potenza decisamente superiore agli altri paesi, così come lo era divenuta alla fine del lungo confronto con la Francia sconfitta a Waterloo. Il succitato Congresso di Vienna – il Congresso detto della Restaurazione (dell’Ancien Régime), in cui solo apparentemente riprese aire il vecchio mondo (quasi nobiliare), in realtà ormai incapace di tenere il passo con l’evoluzione di un capitalismo in accentuato sviluppo – sanzionò pure la supremazia inglese.

Nel periodo intercorrente tra la sedicente restaurazione e la grande depressione del 1873-96 si può ben dire che l’Inghilterra fu la potenza centrale nel mondo. Il possesso di colonie riteneva l’attenzione degli storici, sempre superficiali poiché inseguono i “fatti” nella loro manifestazione più evidente e spesso più effimera. Parlano spesso di longue durée, ma questa attiene in genere a incrostazioni culturali, di costume, et similia, importanti certamente ma non quanto la preponderanza politica, assistita e consolidata, specialmente nell’epoca capitalistica, da quella economica; non però con riferimento preminente all’accelerata crescita dell’apparato finanziario – ancora una volta un fenomeno derivato, e un fattore strumentale preso dai soliti superficiali per causa principale – bensì alla forza produttiva e innovatrice dell’industria, che sostiene in quanto mezzo precipuo il compimento delle mosse strategiche delle varie potenze in conflitto per la supremazia mondiale.

L’età dell’imperialismo – di solito considerata del tutto banalmente come epoca di affermazione del mono(oligo)polio delle grandi imprese (società per azioni) con connesso ostacolo allo sviluppo delle forze produttive (che si presume siano galvanizzate soltanto dalla concorrenza interimprenditoriale) e conseguente necessità di impadronirsi di nuove aree (paesi colonizzati) di “sfruttamento”, divenuto più difficile nei confronti della propria forza lavoro nazionale, in specie nel periodo di rafforzamento del movimento operaio – è in realtà la fase storica dell’indebolimento e declino della potenza inglese, della progressiva perdita della sua centralità mondiale, economica non meno che politica e militare. Un declino che si è potuto valutare solo dopo la prima guerra mondiale e che non deve essere considerato un processo inevitabile ed irreversibile fin dall’inizio di quell’epoca; è andata così, e lo si potuto constatare con almeno mezzo secolo di ritardo (e non completamente, perché la certezza definitiva del tramonto inglese si è avuta con la seconda guerra mondiale). In ogni caso, la lunga depressione del 1873-96 è stata il sintomo (e l’effetto) della messa in discussione della primazia inglese, dell’ascesa di alcune nuove potenze ormai concorrenti nell’aspirazione a prevalere.

La lunga depressione nasceva dallo scoordinamento indotto nell’interrelazione tra i vari sistemi economici, in quanto nervatura e struttura ossea di varie aree – che erano tuttavia paesi, nazioni, poiché ognuna di queste aree, per lottare contro le altre, doveva essere dotata di un determinato insieme di apparati addetti all’esercizio della forza, quelli dello Stato, con potestà territoriale confortata pure da unità di lingua, di cultura, di tradizioni, ecc. – ormai entrate in competizione per il predominio mondiale. In un mondo, in cui i principali paesi erano divenuti capitalistici (erano quindi ormai passati dalla semplice manifattura all’industria), il coordinamento era garantito dalla complementarietà tra le loro differenti sfere economiche: soprattutto quelle produttive, l’aspetto finanziario essendo sostanzialmente derivato, malgrado apparisse il più mobile e soggetto a scosse data la liquidità del mezzo manovrato dal sistema bancario.

Lo scontro tra detti paesi per la supremazia – una volta che alcuni d’essi conquistarono la forza per contestare quella inglese – doveva certo impiegare, in ultima analisi, gli strumenti di sempre, cioè le armi e gli eserciti (oltre alla diplomazia, alle pressioni, alla corruzione o convincimento per interesse di dati gruppi dominanti in altri paesi, ecc.); tuttavia, la sfera economica era divenuta un decisivo strumento corroborante l’impiego dei mezzi d’ultima istanza. E lo sviluppo di tali strumenti corroboranti si verificava ormai con modalità strutturali simili in un certo numero di paesi capitalistici fra loro in conflitto, per cui andava persa l’integrazione, la complementarietà, tra i diversi settori produttivi degli stessi. Da qui lo scoordinamento, presentatosi all’inizio come stagnazione con più bassi tassi di crescita, per poi via via aggravarsi nel prosieguo della lotta e passare di livello, fino appunto all’aperto manifestarsi delle grandi crisi del ‘900: crisi economiche del 1907 e 1929 (con il loro prolungamento di stentata ripresa) e crisi militari con le due grandi guerre mondiali; l’ultima delle quali si concluse con l’avvento di un nuovo centro coordinatore, perché detentore della supremazia, in uno dei due poli in cui fu suddiviso il mondo per poco meno di mezzo secolo. Andiamo però con ordine.

4. Il 1873-96 non fu dunque un periodo di cui ricordare soltanto la relativa stagnazione economica (non generale, soprattutto europea). L’economicismo sempre imperante in tutte le ideologie da oltre un secolo e mezzo a questa parte – che si tratti di quelle dei dominanti o di quelle dei critici del capitalismo – ha impedito di pensare più correttamente quella crisi. In realtà, si trattò dell’iniziale periodo di rafforzamento di alcune potenze che misero in discussione il predominio centrale (il monocentrismo) inglese. Fu appunto la fine di tale predominio la causa decisiva dello scoordinamento tra i sistemi economici di tali paesi, di una loro competizione comportante l’anarchia mercantile malgrado il fenomeno della centralizzazione dei capitali e la formazione del regime di mercato detto oligopolio.

Lenin colse nel segno quando del monopolio disse che non era la fine della concorrenza, ma anzi del suo riproporsi ad un livello più alto. Errò – per omaggio all’ortodossia marxista – assegnando ad esso la qualifica di caratteristica principale dell’imperialismo, da cui derivò la tesi dell’ultimo stadio del capitalismo – che non era affatto ultimo in ordine di tempo; chi sostenne questo, i marxisti sciocchi, impedirono che quell’errore potesse essere fecondo di un suo superamento nella giusta direzione – con blocco dello sviluppo delle forze produttive, ecc. Egli però fece della concorrenza tra imprese monopolistiche per il controllo dei mercati mondiali la quarta caratteristica; e soprattutto puntò l’attenzione sulla quinta, quella decisiva, relativa alla lotta tra potenze per le sfere d’influenza e, di conseguenza, per la primazia globale. Questa era invece in realtà la principale caratteristica – come sostenuto in un mio studio sull’imperialismo di una decina e più anni fa, che spero di riapprofondire in futuro – in grado di chiarire veramente l’affermazione secondo cui il monopolio è concorrenza portata ad un più alto livello con accentuata anarchia nei mercati (e dunque con crisi anche economiche sempre più gravi); e tuttavia come conseguenza, non causa, delle strategie di conflitto messe in opera dalle potenze in lotta. Tutto da ripensare, e con forte ritardo, per colpa di marxisti teoricamente arretrati, simili a tolemaici, che mai hanno capito qualcosa del modello marxiano e delle folgoranti intuizioni leniniane; modello e intuizioni rivelatesi fondamentalmente errati, ma fecondi di potenziali sviluppi non perseguiti minimamente dal marxismo degli ultimi 70-80 anni.

Solo l’economicismo, che vede esclusivamente il regno dello scambio di merci con un grappolo di grandi imprese in esso attivo, può caratterizzare l’oligopolio quale mera fonte di accordo e di conseguente ordine e coordinamento dei settori e unità (imprese) produttivi, con stasi delle forze produttive. Non a caso, invece, il quarto di secolo della grande stagnazione fu periodo di intenso sviluppo nel senso del mutamento della struttura produttiva, mutamento talmente profondo e punteggiato da un susseguirsi di grandi innovazioni, di prodotto oltre che di metodi produttivi, da meritare la denominazione di seconda rivoluzione industriale.

Pur restando entro l’ottica dell’economicismo, qualcosa in più si comincia a capire se ci si rifà alla polemica tra i seguaci della teoria ricardiana del commercio internazionale e coloro che, consapevolmente o per pratica politica, seguirono di fatto le indicazioni protezioniste di List. Do per scontato che si sappia di che cosa si sta parlando (ne ho scritto per sommi capi, ma sufficienti ad afferrare il problema, in Finanza e poteri, Manifestolibri 2008). Importante è soprattutto tenere conto del divenire potenza di alcuni paesi durante l’epoca di depressione a fine ‘800, che trae proprio origine da tale processo d’iniziale multipolarismo con scoordinamento del sistema globale centrato in gran parte sull’Inghilterra. Paradigmatico soprattutto quanto accadde negli Stati Uniti, che del resto divennero la potenza predominante nel corso del XX secolo, ma la cui forza andò rapidamente crescendo appunto negli ultimi tre decenni del secolo precedente.

Non farò certo la storia di tale paese e nemmeno discuterò l’ideologia della lotta allo schiavismo, che fu oggetto del contendere tra gli Stati del sud a quasi monocultura nelle piantagioni di cotone e quelli del nord dove si concentrava il processo di industrializzazione. Generalmente, l’ideologia non è consapevole mascheramento dei reali interessi dei gruppi dominanti, i quali (o almeno una loro buona parte) sostengono spesso con convinzione i principi ideali professati. In altri scritti ho cercato di chiarire il rapporto tra processi legati a date condizioni oggettive e portatori soggettivi degli stessi, tra gli effettivi interessi in gioco dei gruppi dominanti e il loro travestimento ideologico che, oltre ad essere creduto da una quota dei dominanti, consente loro di formare interi blocchi sociali al seguito. Non tornerò su questi problemi nel presente contesto.

Il contrasto tra i cotonieri del sud e gli industriali del nord ha accompagnato quasi tutta la storia degli Usa dalla loro fondazione dopo la guerra contro l’Inghilterra a fine secolo XVIII. Quando nel 1825 – dopo breve carcerazione nel suo paese, il Württemberg, e successivo invio in esilio – List arrivò nel “nuovo mondo”, egli partecipò pure ad una impresa industriale in campo ferroviario, ma soprattutto cominciò a sviluppare le sue idee in contrasto con la teoria ricardiana del libero mercato in campo internazionale (non meno che in quello nazionale), che negli Usa (del sud) aveva come suo alfiere Thomas Cooper, mediocre economista. Le idee di List – contrario ai principi liberisti solo in riferimento alla fase iniziale di industrializzazione di un paese (periodo della “industria nascente”) – si consolidarono poi al ritorno in Germania (1832, poco prima del varo dello Zollverein) e portarono al suo testo fondamentale del 1841 Il sistema nazionale dell’economia politica.

Qui ci interessa comunque il dissidio che, in merito ai problemi dello sviluppo industriale, nacque tra Stati del nord degli Usa e quelli del sud. I cotonieri di questi ultimi, al di là del loro credere o meno nei principi del libero commercio, avevano un precipuo interesse a quest’ultimo perché esportavano cotone nel paese centrale del capitalismo industriale, l’Inghilterra, che ovviamente non vedeva di buon occhio l’eventuale sviluppo dell’industria statunitense, possibile e temibile concorrente. Gli Stati del nord degli Usa erano, altrettanto evidentemente, favorevoli ai dazi doganali per incentivare appunto la crescita della loro industria, in arretrato rispetto a quella inglese; il che comporta sempre maggiori costi poiché non si gode di sufficienti economie interne (soprattutto legate alla scala di produzione) ed esterne (dovute all’agglomerazione di più settori industriali in date aree), ecc. Tuttavia, l’Inghilterra minacciava per ritorsione di accrescere l’importazione di cotone dall’Egitto e dall’India a danno di quella dagli Stati meridionali americani. Al di là, dunque, della polemica sullo schiavismo in questi Stati, le condizioni oggettive di un acuto conflitto tra nord e sud degli Stati Uniti si aggravarono fino allo scoppio della ben nota guerra di secessione (o civile) del 1861-65, violentissima ed estremamente sanguinosa.

La vittoria del nord (Unione) è stata il vero atto di nascita della grande potenza statunitense che insidiò quella inglese e poi la sostituì, ma nel giro di molti decenni. Non ripeto il ragionamento per la Prussia (divenuta nel 1871 Germania assieme ad altri Stati). Anche qui, gli Junker, aristocrazia terriera prussiana particolarmente conservatrice, era interessata allo scambio di prodotti agricoli con l’industriale Inghilterra. Malgrado Bismarck fosse un membro di tale classe, alla fine vinse l’industria interessata alla competizione con quella inglese. In quest’ultima si mantenne a lungo la preponderanza dei settori tessili, mentre in Germania andarono sviluppandosi la chimica, l’acciaio, ecc., le branche tipiche della seconda rivoluzione industriale. Lo stesso dicasi degli zaibatsu giapponesi, grandi concentrazioni industriali (e finanziarie) inizialmente, e a lungo, famigliari. La nascita delle potenze è allora l’effetto di mutamenti intervenuti nella struttura produttiva? E magari si può pensare che, come primo atto, sia necessario accumulare grandi mezzi finanziari e creare un complesso e articolato sistema di istituti – le banche, le grandi società per azioni, predisponendo inoltre un sempre migliore funzionamento delle Borse valori – in grado di fornirli copiosamente al sistema produttivo, in specie industriale? Vediamo.

5. La sequenza dei fenomeni non rispetta sempre i principi del rapporto causa/effetto, che dovrebbe vedere la prima anticipare il secondo. Esprimiamo meglio tale concetto. In realtà, la causa precede l’effetto; solo che non sempre i due fenomeni si verificano allo stesso livello della “realtà”. Mi rifaccio all’esempio dei terremoti. Il “volgo” avverte la terribile scossa terrorizzante e poi, nel mentre cerca di riorganizzarsi e riprendere il controllo della situazione, assiste al cosiddetto sciame delle minori scosse dette “di assestamento”. La sensazione empirica, la più immediata, è che la scossa più forte sia la causa fondamentale del dissestarsi del terreno, mentre poi i vari strati di quest’ultimo, nelle scosse più deboli, si vadano dislocando via via in posizione reciproca tale da ripristinare un certo equilibrio di maggiore stabilità.

La causa del sisma consiste invece nell’accumularsi durante lunghissimi periodi di tempo di una energia crescente per la frizione e urto tra strati di terreno situati a grande profondità, dove è difficile vedere e controllare adeguatamente la situazione (comunque non lo si può “a occhio nudo”). Ad un certo punto, la causa provoca il suo sconvolgente effetto, scaricandosi verso la superficie dove tutto è ben colto dai sensi umani (trascuro il fenomeno secondario dell’eventuale prodursi di alcune minori scariche di “avvertimento” precedenti il sisma). Le scosse di “assestamento” sono in realtà residui dell’energia accumulata per decenni (e più ancora) e liberatasi per la maggior parte nel primo prodursi del suo rilascio. Il terreno, nelle sue profondità recondite, si è già per l’essenziale assestato quando si produce la prima scarica energetica principale, effetto di quella causa rappresentata dalla lunga frizione tra i suoi strati. Come si vede, però, il linguaggio comune, e talvolta perfino quello dei sismologhi, induce a pensare che sia soprattutto il violento fenomeno di superficie a produrre in seguito progressivi assestamenti del terreno.

La stessa cosa deve dirsi per ciò che concerne le crisi economiche. Non lo si è afferrato, io credo, perché indubbiamente il passaggio alla formazione sociale capitalistica, e tanto più dopo la rivoluzione industriale, ha catturato l’attenzione dei pensatori di questioni politiche e sociali, dando fra l’altro inizio alla prima vera scienza di tale ramo che è stata, non a caso, l’economia politica. Per millenni e millenni, la lotta tra dati gruppi (classi) sociali al fine di conquistare e mantenere la preminenza in date fasi storiche è stata condotta nella sfera politica (con la sua decisiva appendice bellica) e in quella ideologica (di solito religiosa). La sfera economica, in minima parte interessata dalla produzione di beni per lo scambio mercantile, era appannaggio di gruppi (classi) subordinati, soggetti a servitù, in ogni caso estranei alla lotta tra dominanti per la supremazia e solo spinti, ma in rari momenti, a violente ribellioni quasi sempre soffocate nel sangue.

Con il passaggio al capitalismo si è verificata la progressiva liberazione dei dominati da ogni vincolo servile e l’estendersi impetuoso del mercato per ogni produzione, proprio a partire dalla necessità dei “liberati” di vendere come merce la propria forza lavorativa; ed è indubbio merito di Marx l’aver individuato in tale processo, costitutivo del lavoro salariato, la reale causa del generalizzarsi della forma di merce dei vari prodotti. Egli è in pratica l’unico ad averlo pensato perché gli altri (dal grande storico Braudel a Polanyi, ecc.) hanno sempre messo la merce in prima posizione. Non posso qui adesso diffondermi sulla rilevanza veramente rivoluzionaria dell’impostazione marxiana, che ha pensato l’affrancamento del produttore da ogni servitù e il suo trasformarsi in lavoro salariato quale fulcro della transizione dal feudalesimo al capitalismo, senza farsi distrarre dalla lunga permanenza di forti sopravvivenze feudali in quanto limiti e intralci alla libera contrattazione di quella merce speciale che è la capacità lavorativa umana (del resto mi sono prodigato in tale analisi in altre sedi).

In ogni caso, con l’avvento del capitalismo, la sfera economica, duplicatasi necessariamente in produttiva e finanziaria (“produzione” e commercio di denaro nelle sue svariate forme), diventa pur essa luogo di scontro per la supremazia nella società. Mentre la scienza del “capitale” (dei dominanti) vede nel mercato il luogo precipuo della competizione, considerata virtuosa perché condotta secondo i metodi del miglioramento e innovazione delle tecniche produttive e dei prodotti, Marx individua la reale diseguaglianza esistente tra i soggetti implicati in questo specifico ambito (questione da me chiarita molte volte e anche nell’ultimo saggio uscito adesso come e-book). Tuttavia, egli pensa come fondamentali i rapporti sociali esistenti nell’ambito della produzione e punta l’attenzione sulla proprietà dei mezzi produttivi da parte di particolari soggetti riuniti nel concetto di classe borghese, considerati in netto antagonismo rispetto ai non proprietari e controllori della sola forza lavorativa venduta appunto in qualità di merce.

In realtà, per quanto sia stata indubbiamente un mutamento rilevante l’estensione del conflitto per la supremazia dalle sfere politica e ideologico-culturale a quella economica (produttiva e finanziaria), è rimasto un elemento di “invarianza” che attribuisce determinati connotati comuni alle diverse formazioni sociali conosciute. Marx lo capì quando scrisse (Manifesto del ’48) che tutta la storia fino a quel momento era stata caratterizzata dalla lotta tra “classi”. Sbagliò però – ovviamente secondo la mia personale opinione – nel pensare che tale lotta si fosse principalmente svolta tra dominanti e dominati; e nel sostenere che la società del capitale (del rapporto capitalistico nella produzione) sarebbe stata l’ultima interessata da un simile conflitto giacché la sua specifica dinamica – centralizzazione dei capitali, separazione tra proprietà dei mezzi di produzione e direzione delle unità produttive, con formazione dei rentier, da una parte, e del lavoratore collettivo, dall’altra – avrebbe comportato la fine di un conflitto antagonistico precisamente nella sfera economica, con progressivo esaurimento dello stesso nelle altre sfere, considerate “sovrastrutture” rispetto alla “base determinante in ultima istanza”. Sarebbero certamente rimasti contrasti più o meno acuti di tipo interindividuale, ineliminabili pure per Marx, giacché non vi era in lui alcuna idealizzazione dei soggetti umani. Tuttavia, tali contrasti non vanno assimilati ai problemi del predominio e dell’appropriazione di pluslavoro (“sfruttamento”) in varie forme (fra cui quella di valore, tipica della società capitalistica).

6. La liberazione dai vincoli di servitù personale (non avvenuta dappertutto in concomitanza con lo sviluppo della formazione sociale capitalistica), il generalizzarsi della forma di merce dei prodotti a partire dalla riduzione a merce della forza lavorativa, il conseguente estendersi della lotta per la predominanza all’ambito economico – prima solo fondamentale per la sopravvivenza della società, mentre le questioni del potere e della competizione per conquistarlo si risolvevano nelle altre due partizioni della società – hanno comportato mutamenti profondi in detta lotta. I mezzi economici, quale strumento di quest’ultima, hanno acquistato rilevanza. Le forma di merce generalizzata ha ovviamente comportato l’uso pur esso generalizzato del denaro nelle sue varie forme monetarie e a queste assimilabili in quanto ricchezza liquida, facilmente mobilizzabile. Gli stessi mezzi bellici, nel processo della loro acquisizione (dopo la necessaria produzione, che richiede anche ricerca scientifica, innovazione, ecc.), implicano l’uso di mezzi monetari e finanziari.

Soprattutto, però, l’economia, una volta generalizzatosi il mercato, ha visto entrare in scena, dopo i semplici mercanti, i produttori di merci. Una volta dimenticata la disuguaglianza reale dei soggetti implicati nei settori della sfera economica (chi possiede i mezzi produttivi e chi fornisce a quest’ultimo la propria forza di lavoro per vivere), la produzione è apparsa appannaggio dei possessori dei mezzi che mettevano in piedi date unità poi denominate imprese. I loro conduttori, all’inizio anche proprietari e in seguito prima di tutto manager – organizzatori e dirigenti delle imprese, ivi comprese quelle che commerciano e forniscono il denaro, il mezzo di scambio delle merci e di accumulazione di ricchezza – sono stati considerati i soggetti centrali di una società divenuta estremamente dinamica quanto a sviluppo delle forze produttive, perché interessata dall’accelerato progresso tecnico in stretto intreccio con l’avanzamento della scienza.

I liberal-liberisti, che non vanno oltre la superficie mercantile con tutti i soggetti che in essa si presentano formalmente (e giuridicamente) quali possessori di merci in libera contrattazione, si sono fermati a tale centralità dell’imprenditore nella nuova formazione sociale. Essi criticano l’economicismo marxista, ma sono i più rozzi e schematici economicisti che ci siano; il mercato è per loro il deus ex machina di ogni situazione. E anche quando uno di loro, in seguito allo choc della grande crisi del 1929, ha apportato una serie di critiche al liberismo tradizionale (si tratta ovviamente di Keynes), non è andato oltre l’indicazione di una spesa pubblica che sapesse rinvigorire la domanda privata in caduta, senza però mutare l’organizzazione produttiva e mercantile capitalistica, né la concezione degli imprenditori in quanto reali artefici della produzione e di quest’ultima quale effettiva causa della dinamica dei paesi capitalistici.

Marx, quanto meno, andò oltre la superficie e vide chi era effettivamente il propulsore della produzione nell’ambito di una separazione tra proprietà dei mezzi produttivi (e dunque del denaro per acquistarli) e mero lavoro salariato. Egli, non sempre però in modo chiaro e con piena coerenza, indicò quest’ultimo come l’insieme dell’attività lavorativa, intellettuale e manuale, direttiva ed esecutiva. Ed infatti, nelle Glosse a Wagner, egli riconobbe che, nella prima fase del capitalismo, il proprietario era anche il dirigente della produzione, contribuendo perciò a creare quel plusvalore di cui poi si appropriava. Poi, nel prosieguo dello sviluppo, la direzione sarebbe confluita nel lavoro salariato mentre la proprietà sarebbe stata appannaggio di una classe simil-signorile, assenteista e parassitaria. Il lavoratore collettivo (mente e cervello in cooperazione pur nella divisione del lavoro) l’avrebbe facilmente sotterrata mediante rivoluzione.

I marxisti successivi si accorsero che lo sviluppo capitalistico non andava in quella direzione, che i dirigenti salariati restavano “specialisti borghesi” (Lenin), quindi legati alla proprietà, al capitale. Essi ridussero allora la classe rivoluzionaria a quella operaia in senso stretto e limitativo, le cosiddette tute blu. Malgrado tutte le chiacchiere sulla possibile cooperazione degli operai, quali proprietari in collettivo di alcune imprese (poi dirette sempre da nuclei che si staccavano dalla massa lavoratrice) – ciance riprese in forze da quello stolto movimento “borghese” che si sbracò nel ’68 e anni seguenti – la classe operaia (nel senso dei lavoratori esecutivi, spesso manuali) non ha mai avuto capacità egemoniche e alla fine è divenuta, in tutti i paesi in cui si è svolta la rivoluzione industriale, “tradunionista” (che significa di fatto corporativa) e del tutto integrata ai meccanismi di riproduzione dei rapporti della formazione sociale del capitale (non più borghese). Chi ha guidato effettive trasformazioni sociali radicali (da Lenin a Mao, ecc.) ha trasferito la qualifica di “soggetto rivoluzionario” da detta classe all’alleanza tra operai e contadini. Tuttavia, quest’ultima si è rivelata sempre meno operaia e sempre più contadina man mano che le rivoluzioni dette “proletarie e socialiste” si andavano trasferendo nei paesi del terzo mondo, largamente precapitalistici.

Malgrado l’affermazione di Marx, secondo cui il capitale non è cosa ma rapporto sociale – già un passo avanti rispetto a tutte le concezioni dominanti, che parlano di capitale con riferimento al denaro e al cosiddetto “fattore” rappresentato dai mezzi di produzione – il marxismo non si è staccato dall’economicismo: i suoi rapporti sociali sono quelli vigenti nell’ambito della produzione e dello scambio contrattuale tra i possessori di merci. Certo, grande cosa aver capito la differente natura sociale delle merci rappresentate dalla proprietà dei mezzi produttivi e dalla “proprietà” di mera forza lavoro. Non era però sufficiente; si è rimasti incantati, anche in questa corrente di pensiero rivoluzionaria, dal passaggio del conflitto – tra gruppi sociali per la preminenza – dalle sfere politica (con appendice bellica) e ideologico-culturale a quella economica; passaggio appunto caratteristico della transizione al capitalismo.

Questo l’errore decisivo che ha bloccato tale teoria della rivoluzione, indirizzando la sua concreta pratica sempre più lontano da ogni dichiarata nuova transizione alla società senza più classi in contesa per dominare. L’errore in questione ha comportato il sostanziale misconoscimento del conflitto caratterizzante il 90% (e più) degli eventi storici: non l’antagonismo tra dominanti e dominati, ma tra gruppi in lotta per la supremazia, ivi compresi quelli dirigenti di masse subordinate in movimento (in specifiche contingenze storiche), che hanno sempre funzionato – oggettivamente, malgrado una diversa ideologia, spesso soggettivamente creduta dai dirigenti in questione e di cui essi si sono fatti portatori – da blocchi sociali orientati allo scopo di conseguire mutamenti radicali dei rapporti sociali.

7. Qui arriviamo al clou della questione; e del fraintendimento in cui incorrono le varie correnti teoriche in discussione sulla società capitalistica: che si tratti degli sciocchi e superficiali creduloni in fatuo dibattito sulle crisi finanziarie (e oggi sullo spread, il massimo dell’imbecillità di sedicenti esperti, ben pagati da gruppi dominanti ormai putrefatti per raccontare frottole) o invece di più seri analisti della crisi nel suo aspetto reale o di coloro che sappiano compiere un ulteriore salto di qualità ponendo in luce la radicale diversità di condizioni di partenza tra chi controlla masse monetarie e mezzi di produzione, ecc. e chi ha da vendere la sola forza lavoro che poi, in situazione di crisi, nemmeno trova più nel mercato una domanda adeguata. Si deve accedere ad un altro livello teorico, apparentemente troppo astratto o poco importante – per i suoi effetti di lunga lena – rispetto ai “terremoti” di più breve momento che sconvolgono la vita delle popolazioni in date congiunture storiche. Eppure da lì si deve partire, altrimenti continuiamo nelle ciance sempre più inconsistenti e vane.

Penso sarebbe fuorviante rifarsi alla “natura” umana, a caratteri insiti in essa, ecc. E’ sufficiente riferirsi alla storia delle diverse società, che sempre – anche nel tanto declamato “comunismo primitivo”, animato dal presunto spirito comunitario che unirebbe certe orde cooperanti ai fini della sopravvivenza in condizioni di bassissimo livello produttivo – hanno conosciuto il conflitto tra individui, e più generalmente tra gruppi di individui, per assumere la posizione di vertice e comando nelle varie fasi della loro storia. La lotta tra individui e gruppi si svolge in base a sequenze di mosse, studiate anche per rispondere a quelle degli avversari, che sono più o meno complesse strategie atte a conquistare la vittoria; questa spetta poi, per periodi di tempo più o meno lunghi e con una preminenza più o meno netta, ad un gruppo nei confronti degli altri, i perdenti. Tali mosse di un combattimento per affermarsi precipitano sempre in apparati di vario tipo, che rappresentano la parte più “densa” (“materiale”) e strumentale delle strategie stesse.

Sono le strategie ad essere la causa – il movimento degli “strati di terreno” più profondi in reciproco urto e frizione – dell’impiego, più o meno sconvolgente, degli apparati nelle sfere della politica e dell’ideologia, le due sfere sociali in cui per millenni si è svolto l’urto tra i vari gruppi in contesa. Gli apparati sono meno flessibili e mutevoli delle strategie, permangono di solito a lungo nella loro “condensazione” e “materialità”; anzi, spesso sembrano gli stessi anche quando ormai altri gruppi sono al comando ed essi, di conseguenza, acquistano connotati e svolgono funzioni differenti nel corso dell’evoluzione storica. Le strategie del conflitto sono quelle che denomino, in mancanza di un termine migliore, la politica nel suo senso più proprio; mentre gli apparati detti politici (ed oggi, primieramente, quelli denominati Stato nel loro insieme) sono suoi strumenti di esercizio, esattamente come solo strumenti sono quelli in cui si va condensando la lotta ideologica (anche nel senso di scontro di “idee sul mondo”), aspetto certo rilevante ma non quello “decisivo in ultima istanza” nel conflitto per prevalere.

Nel passaggio alla formazione capitalistica con generalizzazione degli scambi mercantili – implicante la produzione nelle unità denominate imprese e la duplicazione della sfera economica in produttiva e finanziaria (quest’ultima fornendo il denaro necessario agli scambi, senza i quali non si mette in moto la produzione di forma capitalistica) – ciò che si “allarga” dagli ambiti politici e ideologici a quello appunto economico è innanzitutto la politica, l’insieme delle mosse strategiche del conflitto tra gruppi per la predominanza. E’ precisamente tale “movimento” decisivo – vera causa della transizione dal precapitalismo al capitalismo – ad essere stato messo in secondo piano rispetto allo “scintillio” (solo apparente) della novità insorta: gli imprenditori (i capitalisti in quanto proprietari dei mezzi produttivi e del denaro) diventano figure del combattimento in corso; mentre, in precedenza, i produttori in condizione servile erano puramente e semplicemente dei soggetti dominati (posti appunto “in soggezione”) da chi deteneva il potere nelle altre due partizioni della formazione sociale.

I capitalisti partecipano però alla lotta per la prevalenza in quanto siano capaci di svolgere la politica, le strategie della lotta; i loro strumenti, ma solo strumenti, di battaglia sono le imprese, sono i mezzi produttivi e il denaro da essi controllati. Questi strumenti sono divenuti, sia nelle teorie apologetiche che in quelle critiche del capitalismo, l’aspetto centrale, la vera causa della dinamica di tale società. Questo è stato l’errore fondamentale di apologeti e critici insieme. E’ la politica il fulcro di detta dinamica, non meno che nelle società precapitalistiche; solo che nella nuova formazione sociale essa si è estesa alla sfera dell’economia, a sua volta scissasi nelle due sottosfere già più volte indicate.

Nelle società precapitalistiche, la produzione era svolta nel prevalente settore agricolo coadiuvato da una produzione manifatturiera di tipo artigianale; e con scambi mercantili limitati ad eventuali sovraprodotti di società organizzate per l’autosussistenza. Le crisi potevano provenire solo dall’agricoltura, trattandosi quindi soprattutto di carestie con malnutrizione, epidemie gravi, ecc. Nella società capitalistica, ormai a preminente industrializzazione e con scambio mercantile generalizzato, non vi è più problema di sottoproduzione. Le crisi avvengono per scoordinamento nel tumultuoso processo di sviluppo delle forze produttive con periodiche fasi di grandi innovazioni, dovute fra l’altro al forte intreccio tra scienza e settori produttivi.

Dal punto di vista limitatamente economicistico, l’aspetto più proprio della crisi capitalistica è l’anarchia mercantile; solo una cattiva considerazione, nemmeno specificamente dovuta a Marx, della centralizzazione dei capitali – con idee sostanzialmente errate in merito sia alla formazione del monopolio, in quanto intralcio e poi blocco dello sviluppo delle forze produttive, sia all’impoverimento crescente della gran massa dei salariati – ha potuto far formulare altre tesi come la tendenziale sovrapproduzione o sottoconsumo o la caduta del saggio di profitto, di rara sterilità conoscitiva. L’anarchia mercantile – e ancora una volta va segnalata la capacità intuitiva di Lenin che, pur invischiato in una errata ortodossia, nemmeno marxiana ma solo marxista (kautskiana), vide l’inizio della crisi appunto nell’inceppamento del sistema degli scambi, dovuto al movimento anarchico della produzione capitalistica – coglie almeno un segnale dello scoordinamento causato dal conflitto politico, dallo scontro tra strategie tese alla supremazia. Ed è ovvio che il settore, dove circola la ricchezza in forma liquida – necessaria all’esecuzione degli scambi da cui inizia l’atto produttivo per ogni unità (impresa) coinvolta in questa organizzazione storicamente specifica della sfera economica della società – diventa il primo, in superficie, ad essere interessato dai movimenti tellurici.

Ecco perché ogni crisi capitalistica presenta sempre, nel suo primo manifestarsi, l’aspetto finanziario che investe le borse valori, il sistema bancario, ecc.; a volta con il crollo violento e improvviso. Poi però, in un più lungo lasso di tempo, si vanno manifestando le disfunzioni nei vari mercati, ivi compreso quello della forza lavoro (le cui conseguenze sociali diventano particolarmente gravi e avvertite dalla massa della popolazione). E lo sconvolgimento dei mercati presenta gli aspetti della caduta della domanda complessiva: degli investimenti (con crisi industriale) e dei consumi per perdita di salari e di altri emolumenti vari percepiti dai diversi strati sociali (ivi compresa la falcidia di eventuali risparmi detenuti in titoli, ecc.). Infine, si presenta quella che, per i liberisti (i più ingenui e rozzi economicisti), è una “eccezione” legata al comportamento “irrazionale” degli umani: il regolamento di conti bellico.

Si osservi, sinteticamente, la seguente sequenza tra eventi. Nella seconda metà dell’800 sospensione delle “meraviglie” del libero commercio internazionale con protezionismo negli Usa (soprattutto dopo la guerra di secessione), in Germania e in Giappone. Queste tre potenze iniziano a crescere e a contestare la supremazia inglese. Lo scoordinamento così prodottosi, venendo a mancare il monocentrismo dell’Inghilterra, provoca la grande stagnazione di fine ottocento (circa un quarto di secolo di crescita poco significativa e sviluppo della seconda rivoluzione industriale, con paesi in contrasto fra loro). Nel 1907 si presenta la più grave crisi fino a quel momento, con inizio dalla borsa valori e da New York. Poi si galleggia di fatto fino alla prima guerra mondiale. Alla fine di questa, soprattutto negli Usa, si apre un periodo di espansione economica che accentua la preminenza di tale paese rispetto agli altri. Nel 1929 si verifica il crac finanziario più grave della storia capitalistica, con il seguito (1931-33) della forte crisi reale. Si lancia il New Deal, che fornisce un sollievo momentaneo; indi nuovo galleggiamento fino alla seconda guerra mondiale, dalla quale emerge, nel mondo capitalistico tradizionale (in realtà già da tempo esso non è più quello borghese delle origini), un nuovo monocentrismo, statunitense, che funge da regolatore dell’intero “campo”. Si presentano ormai soltanto “recessioni” e si teorizza quindi il superamento definitivo delle grandi crisi economiche.

Da quattro anni è invece iniziata una nuova fase di stagnazione e galleggiamento, che a mio avviso durerà a lungo spedendo in soffitta le chiacchiere sul suo superamento a breve, sulla possibile cooperazione internazionale; mentre invece andrà accentuandosi il contrasto multipolare. Alla fine, entreremo in un “bel” policentrismo apertamente conflittuale. Non dico nulla sull’eventualità di qualche improvviso botto finanziario con “grande crisi” tipo ‘29. Mi spendo invece per un vigoroso regolamento di conti – in tempi e con modalità non prevedibili; salvo predire una netta diversità rispetto alle guerre mondiali del XX secolo – che forse riporterà verso situazioni di migliore coordinamento; ma attraversando un periodo di gravi eventi traumatici di difficile sopportazione a causa della loro sempre più sconvolgente drammaticità. Traiamo ora qualche conclusione.

Seguirà la terza parte con alcune brevi conclusioni tratte soprattutto dai ragionamenti svolti in questa seconda.


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