Partinico: quando si cessa di pensare

Creato il 14 agosto 2011 da Casarrubea

vento di scirocco

I- Questo è il paese delle campane a morto, dello scirocco, dell’arsura estiva che si mangia alberi ed erba, brucia la pelle e spinge ad una siesta senza fine. E’ Partinico. Qui si dorme. Supini nel letto, con le imposte semiaperte per favorire che il vento s’infili con maggiore pressione accarezzando i bordi delle finestre. Quando l’aria è calma e umida, e toglie il respiro. Qui tutto sembra segnato da un destino fatale e anche i comportamenti di quelli che il popolo elegge a suoi rappresentanti, scandiscono, come un pendolo, l’impossibile ritorno alla normalità, scarafaggi nella stoppa. 

Se normalità è non essere soffocati, o non lasciar morire le cose, o, ancora, non macinarle come in un tritacarne, o in un macinino. Per questo, a Partinico, ci si abitua a prolungare la soglia della propria pazienza, a spingerla oltre il dovuto. Per non rassegnarsi a perdere la speranza come un malanno cronico che ti coglie per nascita. Qui si fa in dieci anni quello che si può fare in pochi giorni. Tutto esprime lentezza e impedimento: i cellulari sempre accesi, come se si aspettasse la notizia decisiva, il non ascolto, l’io che si gonfia in ciascuno come una mongolfiera, la presunzione, l’imposizione, la violenza, il rinvio sine die.

Al comune cittadino non resta che il solo trascendente, l’insieme degli dei pagani, perchè neanche Cristo vorrebbe che l’incuria e l’inerzia umana distruggessero il barlume di futuro cui ogni essere che vive ha diritto. E tuttavia Partinico è anche il paese del vuoto, dei depressi e dei suicidi, di  una mafia atavica alla quale non dispiace il legalitarismo dei calcetti e delle pizze. Forse per questo il vuoto si tende a coprirlo con un certo tasso di processioni, preti, litanie e inni sparati a santi e madonne dalle colonne alte dei campanili, dagli altoparlanti che hanno preso il posto delle campane. Preti e canti liturgici, arsure. Preti che comandano, come podestà, anche se senza stivali e con tonache lunghe fino ai malleoli.

In nomine domini amen.

Non credo che in questo luogo di incensi e di vaporose file di pellegrini che vengono a inchinarsi a beati e a santuari dove ancora spiccano i nomi di munifici capifamiglia che a Partinico trovarono i natali, la religione c’entri qualcosa. Quando studiavo dai benedettini, i frati mi insegnarono un detto che non ho mai scordato: “Ora et labora”. Prega e lavora. Ma Partinico è il paese dell’inferno, delle generazioni che si lasciano perdere, o dei giovanotti impomatati che passeggiano in macchina con i finestrini abbassati fracassando timpani e vetri mentre procedono lenti sulle loro scatolette metalliche, vagando per destini ignoti. Hanno cessato di pensare. La scuola e la famiglia li hanno formati così.

La cultura del rumore va di pari passo con l’inquinamento generale. Fa parte di un grande sistema duale: da un lato il vuoto, il vortice, il baratro. Dall’altro la creazione, lo sviluppo, il silenzio. Ma quest’ultimo versante non esiste.  Neanche concettualmente. Così ha senso solo il rito, la preghiera è sconosciuta. E non basta intonare un inno.

 Giuseppe Casarrubea


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