Qui in Mozambico sto passando molto tempo con gli abitanti del posto e più passano i giorni, più mi accorgo che viviamo in due mondi diversi. Noi diamo per scontate troppe cose, a partire dal sapere leggere o scrivere. Il potenziale dell’Africa, dove tutti parlano almeno due lingue, la loro nativa e quella lasciata in eredità dal colonialismo europeo, è contrastato alle basi da una mancanza di istruzione elementare. Esistono due bisogni primari: il cibo e un tetto, e per me anche rinnovare il visto. Cosa che mi costa una giornata di viaggio.
Ho attraversato la baia che separa Maxixe da Inhambane su una discutibile imbarcazione sovraffollata, ascoltando per un’ora dialoghi in una lingua che non conosco, ma che mi affascina. Chissà cosa si sono detti e se si chiedono perché noi bianchi veniamo nella loro terra arida e addormentata.
O come possiamo permetterci di viaggiare cosi lontano da casa.
Abbiamo concezione di distanza e tempo decisamente differenti e me ne accorgo al mio rientro verso Tofo, 25km di strada dal punto in cui salgo sul mezzo, ancora fermo al mercato centrale di Inhambane. Io carico di frutta, verdura e qualche altra provvista accenno una corsa pur di non perdere il passaggio. Riesco a salire e con gioia vedo che ancora un posto a sedere è libero. Che fortuna, penso.
Poi passano i minuti e il reclutatore di passeggeri mi fa cenno di spostarmi nel retro, dove lui vede un posto al fianco di una signora alquanto spaziosa.
Sale un’altra persona, la dodicesima. Siamo al completo, fa caldo, possiamo partire? Ancora no, aspettiamo. Cinque minuti. Cinque minuti mozambicani.
Il motore si accende giusto in tempo per far salire altre tre persone che torcendosi e incastrandosi tra braccia, ananas, sacchi di riso e ormai invisibili sedili danno il via al viaggio verso casa. Uno spiraglio di finestrino mi permette di vedere qualche baracca, un mercato, persone che camminano ovunque. Il chapa (così si chiama il minibus) si ferma. L’autista sta comprando qualcosa da un ragazzino, cibo forse, manca il resto, aspettiamo. Nel mentre salgono altre due ragazze: numero passeggeri 17. Un chapa non è mai pieno. Ripartiamo ma la corsa dura meno di un minuto, c’è spazio per altri, dicono.
Io sorrido, contento di non essere nei posti accanto alla porta, che ormai rimane aperta, pratica per far scendere (raramente) e salire (costantemente) simpatici personaggi. Dopo le soste per scarico banane, Coca Cola, carico studenti, acquisti volanti di cocco e ruota sgonfia, siamo di nuovo in moto, con calma come piace a loro. Conto 26 persone, ma potrebbero essere di più. Degli stop invece ho perso il conteggio. Poi accade l’impensabile: un persona scende! Seguita da una seconda e poi una terza, che non vuole pagare e si accende un piccolo battibecco, da quel che capisco poco amichevole.
Palma dopo palma mi avvicino alla mia meta. Altri stop, altri minuti. Si vive di pazienza e benevoli sorrisi.
Un viaggio così breve può durare un’ora abbondante. Ma poi curva a destra e brusca frenata con entrata lenta nel mercato di Tofo, il capolinea della “corsa”.
Una vampata di aria profumata di oceano mi travolge. Pago poco meno di 50 cents e affondo i piedi nella sabbia, sollevato da non avere nessuno attorno a strettissimo contatto, solo con la mia sensazione di sentirmi a casa, anche se solo per ora. Chissà dove mi porterà il prossimo chapa e a quale tappa salirò a bordo. Tanto un posto secondo me c’è. O si trova.
Luca